Del: 17 Settembre 2021 Di: Beatrice Balbinot Commenti: 0

Quella notte sul K2, tra il 30 e il 31 luglio 1954, io dovevo morire. Il fatto che sia invece sopravvissuto è dipeso soltanto da me…

Parlando di Walter Bonatti non si può tacere la storica cordata che rese dell’allora inviolata cima del K2 una memorabile conquista italiana. Eppure lui avrebbe certamente preferito evitare l’argomento: ad una domanda sul tema si sarebbe innervosito, forse avrebbe alzato la voce, se ne sarebbe andato arrabbiato e silenzioso. La notte tra il 30 e il 31 luglio 1954, mentre l’Italia osservava il compiersi di un’impresa mai osata prima, Walter Bonatti rischiava l’assideramento a -50°C, abbandonato dai compagni e dalle forze fisiche. 

«Il fatto che sia invece sopravvissuto è dipeso soltanto da me».

Così ricostruisce Bonatti nell’autobiografia Le mie montagne e proprio a partire da queste parole possiamo tracciare un ritratto dell’uomo dietro il grande alpinista di scalate impossibili, la persona dietro il mito: diffidente per necessità e per scelta, un’anima torturata da un senso di ingiustizia e abbandono che solo la relazione con Rossana Podestà riuscì in parte a lenire. 

Per quella salita al K2 erano state selezionate le più eminenti personalità dell’alpinismo estremo e Walter, con i suoi 24 anni, era il più giovane dell’equipe. Gli accordi parevano limpidi: la notte del 30 luglio Bonatti e Amir Mahdi avrebbero dovuto portare le bombole di ossigeno a Lacedelli e Compagnoni perché potessero attaccare l’ultima parete della grande montagna. Il punto di ritrovo era già stato stabilito, ma per motivi mai chiariti Lacedelli e Compagnoni si accamparono poco più in alto, in un punto che, a causa del buio, diventò presto inaccessibile per i compagni che dovevano raggiungerli.

Così, senza tenda e senza sacco a pelo per proteggersi dal gelo, a più di 8000 metri sul livello del mare, Bonatti e Mahdi passarono una notte intera all’addiaccio, scavando con le mani un’ansa nella neve per cercare di ripararsi: sopravvissero, Mahdi subì l’amputazione di alcune dita delle mani e Walter non tornò più lo stesso.

Quel giorno nacque il Bonatti solista della montagna, capace da solo di imprese che nessuno aveva tentato nemmeno in gruppo. Lascensione al pilastro sud-ovest del Petit Dru (1955), la prima solitaria nella via Major nel Monte Bianco (1959) e l’apertura di una nuova via senza l’aiuto di compagni – per giunta d’inverno – sulla parete Nord del Cervino (1965), celeberrima ultima fatica da alpinista estremo, sono alcune delle scalate più famose ed emblematiche di Bonatti, che alle altrettanto mirabili imprese in gruppo preferì sempre le ascese in solitaria.

Parete nord del Monte Cervino

Sul K2 Bonatti imparò giovanissimo a diffidare della gente e delle sue cattiverie, lezione che la vita non mancò di rinfrescargli per i cinquant’anni successivi. Solo nel 2004, infatti, una commissione speciale del CAI (Club Alpino Italiano) riconobbe la veridicità della versione di Bonatti, per mezzo secolo sepolta sotto le bugie degli altri componenti della missione e le infamanti dichiarazioni di alcuni giornalisti che, dieci anni dopo l’impresa, lo accusarono di aver sottratto le bombole a Lacedelli e Compagnoni per tentare di raggiungere per primo la celebre vetta. 

Due scatti riportati alla luce nel 1994 dal dottore australiano Robert Marshall che ritraggono Lacedelli e Compagnoni sulla cima del K2 con le maschere per l’ossigeno ancora indosso restituiscono una speranza di verità a Bonatti. Ma sarà solo dopo la morte del capo spedizione Ardito Desio che finalmente il CAI, grazie all’impegno dall’allora presidente Salsa, si decide a rettificare la testimonianza precedente e la vera storia del K2 viene ufficialmente scritta.

«È stata più difficile la conquista o ristabilire la verità negli anni successivi?» Chiese Fabio Fazio a Che Tempo Che Fa in un’intervista pochi giorni dopo la riscrittura della versione ufficiale di quella notte.«Assolutamente ristabilire la verità» rispose senza pensarci Bonatti, con la voce pacata e gentile e un guizzo di soddisfazione sfinita negli occhi.

E mentre la delusione umana del K2 trasformò l’uomo, la montagna plasmò l’alpinista, insegnandogli a perdere ogni tanto, anche dei compagni. Nel luglio del 1961 alla volta del Pilone Centrale del Frêney partirono in sette: tre italiani (Bonatti, Oggioni, Gallieni) e quattro francesi (Mazeaud, Kohlmann, Guillame e Vieille). 

Tornarono in tre. 

Le due cordate si incontrarono per caso al Bivacco della Fourche e decisero di affrontare la pericolosa cima insieme. Una tormenta che perdurò per giorni colse di sorpresa la spedizione a soli 100 metri dalla vetta, impedendo agli alpinisti sia di scendere che di salire. Morirono uno ad uno, troppo sfiniti per affrontare con successo la discesa che intrapresero in un tentativo disperato di salvarsi durante il pieno della tempesta.

I Rochers Gruber si portano via Vieille, Guillaume precipita in un crepaccio, un nodo nelle corde congelate blocca Oggioni sull’ultima parete di ghiaccio e Mazeaud si trattiene con lui. Al Colle dell’Innominata, Kohlmann, reso pazzo da un fulmine che ha colpito il suo apparecchio acustico, aggredisce Gallieni pensando che avesse una pistola da usare contro di lui. Gallieni e Bonatti sono costretti a fuggire verso Capanna Gamba, dove riusciranno a chiamare i soccorsi. Quando le squadre di recupero raggiungono Kohlmann, l’alpinista francese era già morto. Anche Oggioni non resiste allo sfinimento e al freddo, mentre Mazeaud viene tratto in salvo. 

Pilone centrale del Frêney

Ma la montagna, anche nelle sue punizioni più severe, non fu mai nemica a Bonatti, non gli riservò mai agguati che lui non sapesse gestire, nemmeno sul Freney in fondo. Fu invece l’opinione pubblica a scagliarsi ancora una volta, con tutta la sua velenosa malizia, contro l’alpinista sopravvissuto.

«Posso assicurare che la violenza morale che “l’uomo civile” sa infliggere, non è per niente inferiore a qualsiasi altra violenza fisica. Questo io l’ho provato e pagato fino in fondo», scriverà Bonatti in I giorni grandi, ricordando con amarezza le accuse e le infamie che dovette sopportare dopo la tragica salita del ‘61, tutte smentite da Mazeaud che non mancò di ricordare quanto fondamentale fosse stata la lucidità e la capacità tecnica di Bonatti. 

Montagna che dà, montagna che toglie.

La meraviglia dell’avventura, la bellezza e le sorprese del camminare in bilico sul tetto del mondo, quando tanto più si sale tanto più a fondo si indaga dentro l’io umano, si coniugano con il pericolo, con la possibilità del dolore e della morte. Primo Levi parlava di “carne dell’orso”, Reinhold Messner, grande alpinista che molto si ispirò a Bonatti, parlò della libertà di esplorare come la faccia gloriosa di una medaglia che nasconde un suo lato oscuro: la libertà — e la responsabilità — di sbagliare e di morire tra i limiti dell’umano. Walter Bonatti visse sempre vicino al limite, superandolo di spedizione in spedizione ma senza mai lasciarsi sopraffare.

Anche dopo il ritiro dalla scena dell’alpinismo estremo a soli 35 anni Walter non resistette mai al richiamo dell’avventura, che declinò in imprese meravigliose introno al globo: un passaggio dalla verticalità all’esplorazione a 360° ispirato da vivaci letture di Jack London e non solo, come Bonatti stesso amava raccontare

Per celebrare i dieci anni dalla scomparsa di Walter Bonatti, avvenuta la notte tra il 13 e il 14 settembre del 2011 per un tumore al pancreas, Rai1 ha mandato in onda un docufilm a lui dedicato e diretto da Stefano Vicario (nato dal primo matrimonio di Rossana Podestà) che approfondisce il rapporto tra il tenebroso alpinista e l’amata attrice. Nel piccolo schermo d’Italia si svela così una parte della storia di Walter Bonatti: l’alpinista, l’esploratore, l’uomo, il mito.

Beatrice Balbinot
Mi chiamo Beatrice, ma preferisco Bea. Amo scrivere, dire la mia, avere ragione e mangiare tanti macarons.

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