
C’è uno scrittore scomparso dal canone, ignorato pressoché dovunque, che ha scritto una trilogia meravigliosa capace di comprendere in sé, contemporaneamente, la statua marmorea della tradizione e la folgorante avventura della sovversione.
Mervyn Peake, l’autore, scrisse il primo volume della trilogia, Tito di Gormenghast, negli anni Quaranta del Novecento, quando era un disegnatore noto e apprezzato, soprattutto per aver illustrato le opere di alcuni grandi autori inglesi, da Dickens a Coleridge. Fu una stagione feconda per il genere fantastico, che conosceva sperimentazioni ardite e diffusione crescente. L’opera di Peake si innesta perfettamente su questo ramo, ma in modo anomalo, tradendone dal principio le premesse: il fantasy di Peake è diverso perché muove da un terreno di coltura diverso. È più vicino alle atmosfere enigmatiche e agli interrogativi irrisolvibili di Kafka e Beckett che agli intrighi avventurosi di Tolkien.
Tito di Gormenghast è il sipario che si alza sull’universo costruito da Peake. L’atmosfera è al tempo stesso surreale e barocca, gotica e fantastica. In un certo senso, è un romanzo per immagini, quasi visuale: minuzioso e abbacinante. I personaggi vivono in un castello lontano dal mondo; emergono, dalla fissità della vita quotidiana, i temi nodali del racconto.

Da una parte c’è la tradizione. Il conte De’ Lamenti segue rigorosamente un insieme di regole vetuste e intramontabili – la Legge – custodite con gelosia e arroganza. È una legge di riti e costumi così antichi che nessuno sa più dirne le ragioni di esistenza. Il castello stesso di Gormenghast, il palcoscenico sul quale tutto si svolge, è l’immagine della tradizione: immenso e tentacolare, stracolmo di corridoi, stanze, scale. Soprattutto, polveroso; di una polvere spessa e inattaccabile, che sembra avvolgere i pavimenti, il mobilio, persino le serrature. Anche quando Peake non ne parla, si finisce per percepire la polvere a mezz’aria, dietro le porte socchiuse. Il castello, questa informe struttura arroccata, racchiude in sé un universo completamente autosufficiente, un labirinto in larga parte inconoscibile, vasto in larghezza e in altezza, con i corridoi che curvano, salgono, scendono, ma sembrano non finire mai.
Ed è proprio la mole del castello, la sua atmosfera asfissiante, che produce un importante snodo narrativo: il rigido confine, mentale e fisico, tra chi è dentro e chi è fuori.
Nessuno può sfuggire al castello. Non solo: le descrizioni di Peake sono così dettagliate che il lettore stesso finisce per essere imprigionato nella fortezza. L’intero romanzo è costruito – architettonicamente, si potrebbe dire – affinché emerga la sensazione di gabbia e di recinto che caratterizza la vita all’interno del castello. Il conte, la sua famiglia e i vari servitori vivono all’interno, quasi del tutto ignari di ciò che accade fuori, che appare lontano e insondabile.
Mentre il lettore casca in questa trappola claustrofobica appare il vero protagonista del romanzo. Il giovane Ferraguzzo – un nome quasi alla Dumas – è così dinoccolato da incarnare la propria malignità. È un personaggio lombrosiano: nel ritratto realizzato dallo stesso Peake posto sulla copertina dell’edizione Adelphi, il volto è emaciato e scarno, cupo sino all’intollerabile, con la fronte vasta, gibbosa e volitiva. Appare sulla scena come sguattero di cucina; con il passare del tempo proverà a forzare le regole del castello e a rompere gli schemi secolari che reggono la vita sociale di quell’ambiente chiuso e asfittico. Mentre si adopera per sovvertire l’ordine, sogghigna in continuazione, quasi morbosamente. Nelle sue fughe e nelle sue macchinazioni, finisce per rappresentare il desiderio innato di uscire dalle costrizioni, di sgretolare l’orrendo recinto che costringe a restare dentro e a non uscire fuori. Le metafore, naturalmente, si sprecano; è una sovversione psicologica più che fisica: una sovversione di intenzioni.
Eppure la narrazione prosegue spedita, tra episodi dirompenti e colpi di scena. L’ironia feroce si alterna ai brividi dell’incubo.
Uno scrittore che induce contemporaneamente queste sensazioni – il povero lettore, sulle montagne russe, suda e ride senza logica – non può che essere un grande scrittore. La prosa è insieme lieve e possente, non lascia tregua; riporta continuamente il lettore a sfiorare sensazioni irreali e surreali tipiche del fantastico, ma si mantiene ben aderente alla realtà materiale e corporea. È come se la fantasia si rivelasse per ciò che è: un serbatoio di atmosfere, dinamiche, parole che aleggiano sul mondo reale, lo influenzano, ma non lo contaminano mai fino in fondo. Un serbatoio cui ritornare per andare al cuore delle vicende umane.
La struttura del romanzo e lo stile di Peake producono sensazioni contrastanti di meraviglia e paura; lo stile gotico è evocato, accarezzato; piuttosto, cresce con il passare delle pagine una dimensione di lotta tra le due opposte pulsioni, di dualismo sfrenato tra la conservazione e il mutamento. Alla fine del libro si apre un’ultima inaspettata finestra, che costituirà il centro della narrazione dei due libri successivi. Il figlio del conte, nato all’inizio del romanzo, compie due anni e si trova, lui stesso giovane erede, al centro delle forze opposte e contrastanti della tradizione e della sovversione.
Tutto ciò che Peake mette in scena contribuisce all’atmosfera disturbante del romanzo. Uscito dagli orrori della seconda guerra mondiale, Peake ne resterà turbato per tutta la vita. Costruisce un universo storto e imperfetto, che crea turbamento e rimane magnifico. Come ha detto Michele Mari nel confessare la sua ammirazione per la trilogia di Gormenghast, «se considero il caso di Mervyn Peake il canone è iniquo, perché Peake è scomparso». Nelle pieghe di Gormenghast si nasconde un universo polveroso davvero irresistibile e seducente: per una volta, il canone ha sbagliato.