
Radici racconta fatti, personaggi e umori della storia della Prima Repubblica italiana, dal 1946 al 1994. A questo link è possibile trovare gli articoli precedenti della rubrica.
«Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure». Così recita la nostra Costituzione all’articolo 21. Reduci da un ventennio in cui le cose stavano ben diversamente, madri e padri costituenti si trovavano a risanare anche il giornalismo in vista di un futuro repubblicano.
Che fine aveva fatto la stampa durante il fascismo? Anzitutto bisogna fare un taglio a metà: da una parte la stampa di partito, emanazione diretta del Partito Nazionale Fascista, e dall’altro la stampa di regime, ovvero tutti gli altri giornali, dal Corriere al Mattino, che dovettero indossare la camicia scura, cacciar fuori dalla redazione le penne dissidenti e arruolare quelli che Mussolini chiamava «militi al servizio della patria», impegnati a «valorizzare ciò che è sano, buono, bello, eroico» e «ignorare il resto, seppellirlo nel buio dell’indifferenza assoluta».
Che si trattasse di testate «fascistissime» o fascistizzate, la linea di fondo era una: niente spazi per libera critica e «foruncolosi democratiche», trenta righe e non di più per la cronaca nera che macchiava la reputazione al regime, articoletti obbedienti alle veline del ministero. Diversi redattori, piuttosto che ritirarsi o avviare una stampa clandestina, accettarono di arricchire il principio dell’obiettività con le feconde seduzioni dell’invenzione.
Quanti credo democratici sacrificati sull’altare dell’opportunismo!
Si capisce che brutta cancrena potesse essere qualche anno dopo, al momento di ricostruire il paese, la faccenda dei giornalisti compromessi col regime. All’inizio si pensò di fare una ripulita generale: «l’intellettuale che si mette a servizio della bestialità diventa peggio della bestia» ricorda il giornalista Vinciguerra.
Era prevista una triplice magistratura: una inquirente, l’Alto Commissariato, una giudicante e una di appello. Il setaccio però fin da subito mostrò una certa propensione ad allargare le maglie, e così, complice anche la solidarietà tra colleghi, diversi casi furono chiariti subito: Guido Piovene, che pure aveva lodato un’opera come il Contra judaeos di Interlandi, non risultava essersi occupato di politica e poteva star tranquillo.
Nel frattempo, mentre si stabilivano sanzioni per i direttori che assumessero giornalisti epurati e quindi esclusi dall’albo, liberali come Pannunzio iniziavano a parlare di provvedimenti liberticidi, democrazia in pericolo, albo come subdolo strumento di controllo degli intellettuali. Alla fine, una legge voluta da Nenni per dare un’accelerata al processo si limitò a condannare i vertici del regime, stabilendo che l’apologia del fascismo non era più motivo di incriminazione. Presa ormai la strada della grazia, si aggiunse anche una larga amnistia.
Proprio in quegli anni era nato un nuovo giornale, Il Tempo di Angiolillo.
Virginio Lilli, che non s’era fatto troppi scrupoli a metter giù articoli antisemiti per il Corriere, aveva i suoi motivi nello scrivere che «l’Italia era praticamente morta, e in quest’epoca di pietrificazione Angiolillo decise di fare un grande giornale che parlasse a tutti gli italiani dicendo di risorgere». Angiolillo era un antifascista ritiratosi dall’attività giornalistica durante il regime, e la sua testata si muoveva con cautela tra un discorso conciliante e l’altro: le punizioni definitive dovevano limitarsi solo agli autori dei delitti più efferati, e il discrimine era l’armistizio del 1943.
Gli aderenti alla Repubblica di Salò, fedeli a Mussolini fino alla fine, avevano le colpe maggiori. Quanto agli altri, li si poteva pure assolvere: d’altronde molti avevano ammesso sì di aver scritto encomi per il duce, ma più per timore e con dissimulata avversione, perché il fascismo non li aveva mai convinti appieno. Gli italiani, fin troppo devoti a quella musa Mnemosyne che è tanto cara agli abitatori del passato, mai indulgenti e incapaci di perdonare, avrebbero fatto meglio a mondare la memoria e aprirsi a un futuro da costruire insieme.
Tirando le somme: la purga dei cronisti fu un proposito rimasto allo stato gassoso.
Nel 1946 vennero riammessi all’albo quelli deferiti in principio, e nel 1948 anche gran parte di coloro che non avevano passato indenni le forche caudine dell’epurazione. Il panorama delle testate antecedente la guerra rimase inalterato e non ci furono ordinanze come quella francese, che pose fine a ogni giornale continuato durante l’occupazione tedesca senza risparmiare colossi della popular press. Nessun vero ricambio redazionale, niente quotidiani indipendenti come Le Monde, un vago cenno costituzionale alla libertà di stampa più come appendice della libertà di pensiero che come risposta a un diritto di informazione.
Far calare l’oblio sulla classe giornalistica di allora, oltre a rigirare e banalizzare la questione delle responsabilità, ha danneggiato anche la nostra memoria di oggi. Non è un caso che il giugno scorso, quando nel mezzo della furia iconoclasta ci si è accorti che a Indro Montanelli abbiamo dedicato un giardino pubblico con tanto di statua e qualche rivoluzionario last minuteè corso a imbrattarla di rosso, di Montanelli si è detto che era un poco di buono, un pedofilo, un razzista, ma non è stato messo in dubbio il suo valore professionale. Eppure Montanelli aveva lavorato per il regime, salvo poi, fiutato l’armistizio, correre ai ripari e ridicolizzare il duce imputando a lui solo i danni del ventennio: come se a fare un totalitarismo bastasse un tizio di nome Benito con qualche gerarca al seguito, e la connivenza di un paese fosse un fatto accessorio.
Si potrebbe questionare per ore la digeribilità o meno del condono, fare ironia facile di fronte alla vacillante coerenza del signor Montanelli e di chi, come lui, si sporcò il tesserino di nero eppure ne uscì pulito. Nell’Atene del IV secolo a.C., città che conosceva bene le amnistie ma non i guai del quarto potere, i trasformisti li chiamavano «coturni», come i calzari degli attori di teatro: scarpe senza destra né sinistra, che si adattavano con disinvoltura al piede come il demagogo Teramene alla parte oligarchica o democratica del momento.
Dove si piazzano i voltagabbana? In un girone apposito con squalifica eterna o nel purgatorio di una sospensione temporanea? La faccenda, suggeriscono alcune osservazioni di Pierluigi Allotti, è forse meno complicata e pedante di quanto sembri, più tecnica che morale. I giornalisti che accettarono di mettersi al servizio del regime tradirono, insieme a un ideale democratico che piluccavano appena, l’essenza stessa del loro mestiere. Un cronista è uno storico del presente: se dire la verità è una gran bella sfida al relativismo, quantomeno cercarla senza tregua rastrellando tra fatti e opinioni dovrebbe essere il suo primo comandamento. E anche l’unica deroga che non si può concedere, mai: bastano due righe di strappo alla norma e si sta già facendo un altro lavoro.
Bibliografia: Pierluigi Allotti, Giornalisti di regime. La stampa italiana tra fascismo e antifascismo, Carocci, Roma, 2012.