Del: 23 Dicembre 2021 Di: Andrea Marcianò Commenti: 0

Se a livello sportivo il 2021 è stato considerato molto spesso come l’anno italiano, ciò non si può dire per il cinema, che nel Belpaese sembra vivere un letargo che dura ormai da trent’anni. 

Questo pirotecnico “anno della rinascita” ha visto una notevole distribuzione di opere, aumentata (per ovvi motivi) rispetto lo scorso anno: ciò rende il 2021 non solo l’anno della ripartenza ancora un po’ traballante, ma anche quello riappropriazione territoriale del medium cinematografico alla sala. Peccato che l’Italia non partecipa a tutto ciò.

Oltre a un paio di titoli di grossa produzione, come Freaks Out di Gabriele Mainetti e Diabolik dei Manetti Brothers, l’Italia non è stata in grado nemmeno quest’anno di riuscire a portare sul grande schermo storie degne di essere raccontate o che potessero come minimo intrattenere, stupire, sbeffeggiare, provocare, eccitare e tutto ciò che può creare emozioni forti. Dalla sterile produzione italiana quest’anno invece abbiamo assistito a un ennesimo Nanni Moretti alle prese con un dramma famigliare, Tre Piani, nel quale la sovrapposizione dell’Io non basta per vincere Cannes; risultato: Moretti non vince e si arrabbia addirittura con la vincitrice ufficiale del Festival, Julia Ducournau, in un post Instagram, essenzialmente allegorico di un suo certo cinema che non sa più dire molto.

Del resto, a parte qualche altra produzione indipendente di valore da proteggere (Il Buco di Frammartino, Re Granchio di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis per citarne due) il cinema italiano si trova in balia ancora una volta della commedia becera e stravista. Con questo non si intende che nel resto dei paesi si produca solo bella roba: ovunque esiste il buon cinema e quello cattivo, la differenza è che in Italia quest’ultimo, quello visto migliaia di volte e fatto da autori della televisione da prima serata, viene innalzato a valore inestimabile e rappresentativo del paese. Il problema non è che non esistono film come Re Granchio, ma che viviamo in un sistema pigro senza voglia di rinnovarsi: siamo nella stessa situazione che raccontava Boris, ormai dieci anni fa.

A trainare l’industria cinematografica invece c’è sempre e solo lei: la Francia, paese numero uno in Europa per il cinema (se si esclude il Regno Unito) e ancora centro nevralgico della cultura cinematografica. Se Cinecittà possiede gli studi più grandi e alle valli della Borgogna Hollywood preferisce i paesaggi del sud Italia, non si può ignorare l’importanza che il cinema francese ha a livello produttivo.

Quest’anno i grandi film, intesi con ciò per la loro capacità di far parlare di sé, sono stati molti di più del nostro paese.

Qualche titolo: Titane di Julia Ducournau, vincitrice alla Palma d’Oro di Cannes, capace di rievocare il body horror di Cronenberg rivitalizzandolo e secondo molti superando anche lo stesso maestro; Mandibules di Quentin Dupieux in grado di riportare la commedia nonsense in carreggiata dopo i numerosi abusi del genere; Annette, anche se di produzione americana, grande successo proveniente dal genio di Léos Carax; France di Bruno Dumont con la bravissima Léa Seydoux (presente anche in No Time to Die e The French Dispatch) già conosciuta in passato per aver lavorato con Tarantino, Lanthimos e Woody Allen; addirittura la vincitrice a Venezia, Audrey Diwan con L’événement; infine, ma gli esempi potrebbero continuare, segnaliamo il ritorno dietro la cinepresa anche per Céline Sciamma con Petit Maman, una delle giovani registe più influenti al mondo. 

Non è una sorpresa dopotutto, la cinematografia è legata intrinsecamente alla cultura francese, ma così lo è anche in Italia: da una parte, però, un paese ha saputo sfruttare i suoi mostri sacri a partire dal cinema delle origini con Méliés, e poi con la nouvelle vogue degli anni Sessanta; dall’altra i movimenti del neorealismo e degli autori come Fellini, Leone, ma anche Argento, sono rimasti fenomeni da cui nessuno ha appreso veramente (beninteso in Italia), altrimenti il cinema italiano oggi sarebbe il centro di maggior opportunità produttiva dell’intera Europa. 

Ma così non è, gli anni passano e al cinema tocca vedere registi che ripropongono gli stessi temi ammuffiti, e l’Italia rimarrà sempre quel paese in cui un fenomeno come quello di Gabriele Mainetti stupirà perché rimane “un unicum nel panorama produttivo del cinema nostrano”: i numeri però li abbiamo, che aspettiamo a usarli?


In copertina i Manetti Brothers sul set di Diabolik.

Andrea Marcianò
Classe '99, nato sul Lago di Como, studente in scienze della comunicazione, amante di cinema e televisione. Mi piace osservare il mondo dall'esterno come uno spettatore.

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