Del: 22 Dicembre 2021 Di: Angela Perego Commenti: 0

L’ennesima aggressione sessuale subita da due donne il 3 dicembre scorso (la prima sul convoglio che collega Milano a Varese, la seconda nella stazione di Venegono Olona) ha riacceso il dibattito sulla sicurezza a bordo di treni e metropolitane, luoghi in cui, soprattutto in corrispondenza di alcune fasce orarie, le donne si trovano spesso a temere per la propria incolumità. 

Per questo motivo e sull’onda della preoccupazione che gli episodi del 3 dicembre hanno suscitato, Greta Carla Achini, proprietaria di un negozio di ottica a Malnate, in provincia di Varese, ha deciso di lanciare su change.org una petizione indirizzata a Trenord, chiedendo che su tutte le linee la carrozza di testa possa essere riservata alle donne. Se da una parte la previsione di carrozze riservate potrebbe davvero consentire ad alcune donne di viaggiare più sicure, dall’altra i problemi legati alla sua attuazione sarebbero diversi e significativi – senza contare che alcune criticità resterebbero irrisolte. 

Dal momento che bisognerebbe innanzitutto stabilire che cosa si intenda con l’espressione “per sole donne”, nonché le modalità di svolgimento di controlli che impediscano a chi non rientri in questa categoria di usufruire delle carrozze riservate, il rischio potrebbe essere quello di rendere difficile l’accesso alle persone trans, purtroppo già largamente discriminate ed emarginate nel nostro Paese. Inoltre, queste carrozze costituirebbero una percentuale limitata rispetto alla totalità dei vagoni, con il rischio, qualora dovessero risultare insufficienti, di un eccessivo sovraffollamento, nonché di escludere coloro che non dovessero riuscire a trovare posti liberi; essendo poi collocate normalmente in testa al convoglio, potrebbero risultare difficili da raggiungere, costringendo alcune donne ad attraversare le carrozze centrali miste. Prima di procedere, occorrerebbe dunque riflettere seriamente sulla quantità di vagoni da mettere a disposizione e su una loro omogenea distribuzione.

Senza contare che, una volta scese dal treno, le donne sarebbero comunque abbandonate a loro stesse, dovendo attraversare stazioni e parcheggi deserti, sottopassaggi, strade poco illuminate. 

Il difetto più grande di questa proposta – che andrebbe a nascondere piuttosto che a ricucire lo strappo, proteggendo soltanto alcune donne e, peraltro, temporaneamente – è però ancora una volta quello di scaricare il peso delle aggressioni subite sulle spalle delle donne. Questo sistema si basa infatti sull’aiuto e la protezione reciproca che le viaggiatrici, radunate tutte in unico luogo, possono fornirsi a vicenda, deresponsabilizzando le istituzioni e le società che si occupano di trasporto pubblico, che dovrebbero invece pretendere controlli frequenti da parte del personale a bordo, nonché predisporre telecamere di sorveglianza continuamente monitorate piuttosto che pulsanti di emergenza. Previsioni che potrebbero essere adottate già oggi, su treni con carrozze miste, evitando il sistema di quelle riservate che, come abbiamo visto, presenta diverse problematiche anche dal punto di vista dell’inclusività. 

Una misura di questo tipo contribuirebbe ad alimentare quella narrazione per cui la violenza di genere è qualcosa da cui le donne stesse devono proteggersi (non vestendosi in un certo modo, evitando l’uso di alcolici alle feste, vigilando le une sulle altre nelle carrozze riservate…), e non un comportamento che non dovrebbe in primis essere messo in atto dagli uomini. 

Muovendo da questa notizia e da queste considerazioni, abbiamo voluto fare una riflessione più ampia sul tema con Domenico Matarozzo, membro del direttivo dell’Associazione Maschile Plurale, che coinvolge in primis gli uomini affinché la violenza di genere non venga solo repressa, ma cominci ad essere considerata impensabile. 


L’intervista è stata editata per motivi di brevità e chiarezza. 

Com’è nata la vostra Associazione e quali sono le attività di cui vi occupate?

La nostra è una rete di persone e di gruppi che ha una trentina di anni ormai, dislocata in tutta Italia. Dalla rete Maschile Plurale, circa quattordici anni fa, è nata anche l’Associazione. Attraverso diverse attività ci occupiamo di ripensare il modello maschile, di mettere in discussione stereotipi capaci di generare un sistema che anche solo si permette di pensare possibili atti come quelli accaduti lo scorso dicembre. Peraltro, questi ultimi costituiscono solo “la punta dell’iceberg”: spesso ci si concentra solo sul fatto eclatante, ma a questo si giunge attraverso una serie di comportamenti che passano maggiormente sotto silenzio e che sono dovuti a una certa cultura, al pensiero che la donna sia inferiore o “di proprietà” dell’uomo. Noi cerchiamo di mettere in discussione questo modello attraverso un lavoro di sensibilizzazione, campagne pubblicitarie, formazione nelle scuole, sia con studenti che con insegnanti. La nostra, insomma, è una rete di tantissime realtà in tutta Italia, con gruppi locali che svolgono attività culturali o gruppi con cui si interviene direttamente sugli uomini maltrattanti. 

A proposito di questa volontà di ripensare il maschile, consultando il vostro sito ci siamo resi conto dell’importanza che viene data alla diversità (fatto che risulta dal nome stesso dell’Associazione, Maschile Plurale). Perché la valorizzazione delle differenze assume un tale rilievo nella lotta al modello patriarcale e, tra le altre cose, alla violenza di genere che esso comporta?

Il punto è che l’eteronormatività, unita ad un certo modo di concepire il maschile, vorrebbe affermare che chi è eterosessuale, bianco etc., può permettersi tutto, mentre chi non rientra in questo modello viene catalogato come inferiore. Nel momento in cui si concepisce un mondo con “superiori” e “inferiori” e non si mette in discussione l’esistenza di una tale gerarchia, seguono a cascata una serie di idee preconcette che fanno sì che io pensi di potermi permettere di bullizzare un compagno di scuola, piuttosto che di schiaffeggiare la mia compagna. Purtroppo, si tratta di un modello di società: agire contro la cultura patriarcale è difficile proprio perché ci si trova a cercare di sradicare una violenza strutturale – non un fenomeno sporadico, né dovuto a raptus. Si tratta di un pensiero che intacca tutti, spesso anche il femminile: non è raro che nelle scuole ci venga detto “Sono contenta se il mio fidanzato mi controlla il telefono, perché significa che tiene a me”. Dobbiamo quindi lavorare su un’intera società che dà per scontato questo modello. 

Sarebbe importante comprendere che si tratta effettivamente di una violenza strutturale, come ha detto, mentre sui media, quando ci si occupa di casi di femminicidio, spesso si parla di “raptus”, si descrivono i carnefici come uomini accecati dalla gelosia, forse con la volontà di presentare queste situazioni come eccezionali, di modo che altri possano prendere le distanze e dire: “Io un atto del genere non lo compirò mai”. Mentre non è così, in molti restano ancora immersi in questa cultura. 

Bisognerebbe andare alla radice del problema, non fermarsi ad affrontare solo il caso eclatante del femminicidio piuttosto che dello stupro, che ovviamente sono le priorità. Dovremmo guardare a quello che sta dietro a questi fatti, cioè una società che “vende” un determinato modello maschile e un determinato modello femminile, mettendoli su piani diversi e attribuendo loro delle etichette: cosicché, se ad esempio una donna ubriaca subisce uno stupro, uscendo dal modello di femminile che è socialmente accettato, si arriva a dire che “se l’è cercata”. 

Gli uomini come possono sottrarsi a questo modello di mascolinità che viene loro imposto?

È bene ricordare che non solo la violenza è una scelta: anche l’adesione ad un modello lo è. Quando entriamo in contatto con gli uomini cerchiamo di far capire loro che devono fare una scelta, osare. Devono provare a sentire loro stessi e a non aderire in modo cieco ad un modello. Cambiare è difficile, ma bisogna attivarsi per riuscirvi. Anche nelle scuole cerchiamo di sottolineare come ciascuno di noi, con certi comportamenti, può contribuire a nutrire un modello culturale che può portare alla violenza. Dobbiamo allora cercare un nuovo modo di essere uomini, anche se questo significa andare controcorrente. 

Sicuramente per arrivare a questo risultato il lavoro a contatto con i più giovani è estremamente importante. A proposito di scuola, però, sappiamo che l’Italia è uno dei pochi Paesi dell’UE a non prevedere l’educazione sessuale obbligatoria negli istituti. La vostra Associazione quali attività svolge nelle scuole? Ritiene che un’educazione sessuale che si concentri non solo sugli aspetti biologici ma che, ad esempio, educhi anche all’ascolto, alla ricerca del consenso e alla corretta comunicazione dei propri bisogni, possa essere un’arma utile a contrastare la violenza di genere? 

Gli interventi che noi svolgiamo nelle scuole sono molteplici, dipendono molto anche dalla richiesta che ci viene fatta. Più che fare educazione sessuale, che è già un livello successivo, cerchiamo di capire che tipo di relazioni instaurano questi ragazzi, come talvolta loro stessi vadano a nutrire alcuni stereotipi e come da qui possa avvenire il passaggio alla violenza (che non si riduce alla violenza fisica, ma è rappresentata da ogni tipo di prevaricazione). Il fatto di ragionare sugli abusi che essi stessi compiono o che vedono compiere, li coinvolge di più, può far capire loro che in alcune relazioni non si sentono liberi e farli riflettere sul motivo per cui questo accade. 

Angela Perego
Matricola presso la facoltà di Giurisprudenza, “da grande” non voglio fare l’avvocato. Nel tempo libero amo leggere e provare a fissare i miei pensieri sulla carta.

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