Del: 3 Dicembre 2021 Di: Redazione Commenti: 0
Violenza di genere: a che punto siamo?

È il 27 novembre, Greta Beccaglia è una giornalista e sta svolgendo il suo lavoro fuori dallo stadio Artemio Franchi di Firenze dove si è appena tenuta la partita Empoli-Fiorentina, finita con un 3 a 1 a favore della prima. Sembra uno degli abituali collegamenti post-partita per la trasmissione A tutto gol, fino a quando un tifoso si avvicina alle sue spalle e la molesta in diretta tv: l’uomo le dà uno schiaffo al fondoschiena e altre voci contribuiscono con frasi sessiste.

Greta Beccaglia prova a ribeccare l’uomo dicendogli: «Scusami, non puoi fare questo, mi dispiace», ma serve a poco e il collega in studio esordisce con un «non te la prendere». Per poi aggiungere: «Si cresce anche attraverso questa esperienza. Chiudiamola qui così, se vuoi, puoi reagire a questi atteggiamenti che meritano ogni tanto qualche sano schiaffone che, se fossero stati dati da piccoli, li avrebbero fatti crescere meglio». 

Dopo tre giorni dall’evento, la giornalista torna allo stadio e incontra il presidente della Fiorentina che le pone le sue più sentite scuse. Nel frattempo, il responsabile è stato identificato. Si tratta del 45enne Andrea Serrani che nonostante le sue scuse dice:

«Ero con un amico che avevo raggiunto a Firenze. Eravamo amareggiati, in pochi minuti la nostra Fiorentina era passata dalla vittoria alla sconfitta. C’erano alcuni giornalisti che chiedevano commenti a caldo. Ho visto questa giornalista e le ho dato un buffetto sulle parti basse. Era solo un gesto goliardico».

Eppure due giorni prima, il 25 novembre, ricordavamo le donne vittime di violenza. Abbiamo promosso numerose iniziative, letto i post dei personaggi pubblici che si sono scagliati contro la violenza di genere, scarpette e panchine rosse hanno adornato le nostre città.

Bastano dei manifesti? Bastano delle parole? Basta tutto questo quando ancora una donna, anzi una professionista, non può svolgere il proprio lavoro senza subire delle molestie sessuali?

Prendiamo il punto di vista dell’attivista femminista Federica Fabrizio, conosciuta su Instagram come @federippi, che esprime in modo chiaro e diretto il suo pensiero sulle iniziative. A lei il 25 «fa schifo», dice senza mezzi termini. Fa schifo se poi ci si trova a «fare la conta delle vittime» e vorrebbe che il 25 fosse un giorno come un altro.

Afferma che le panchine e le scarpette rosse servono a poco se hanno significato solo per un giorno, se i centri antiviolenza devono chiudere per mancanza di fondi, se a scuola non si parla di consenso e non si ridiscutono i rapporti di forza della società. Vuole che la violenza venga contrastata ogni giorno, vuole che per 365 giorni si smetta di avere paura. Federica Fabrizio è la voce che volevamo sentire, giovane e brillante. È la voce che ha dato un suono ai nostri pensieri. Pensieri che non devono essere il timore per una molestia fisica e verbale, la preoccupazione di non essere prese sul serio, non essere ascoltate, messe da parte o peggio viste sotto l’etichetta di femministe estremiste e polemiche.

Basti pensare che nell’ambito scientifico ancora oggi è necessario ribadire l’esistenza stessa del fenomeno, perché vi è ancora chi sostiene che non vi sia una specificità per quanto riguarda le donne in relazione agli episodi di violenza.

E ciò nonostante lo studio del fenomeno ha apportato una svolta negli studi che riguardano la violenza in senso più ampio.

È quanto afferma un paper pubblicato nel 2019 dal Consiglio Nazionale delle Ricerche nell’ambito del progetto VIVA (Monitoraggio, Valutazione e Analisi degli interventi di prevenzione e contrasto alla violenza contro le donne), che al proposito ripercorre gli studi condotti dalle scienze sociali a partire dal 1970. 

L’evoluzione di questi dibattiti è ricostruibile in un ideale percorso che comincia nel 1979, con la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW), continua con la Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne del 1993 e la Piattaforma d’Azione di Pechino del 1995, e approda nel 2011 nella Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.

Gli autori spiegano che il problema della violenza sulle donne venne menzionato solo a partire dal 1933. In quell’anno l’Assemblea Generale delle Nazioni definisce infatti la violenza contro le donne come «qualsiasi atto di violenza per motivi di genere che provochi o possa verosimilmente provocare danno fisico, sessuale o psicologico, comprese le minacce di violenza, la coercizione o privazione arbitraria della libertà personale, sia nella vita pubblica che privata.»

Si diffonde dunque una comparazione tra violenza e diseguaglianze di genere che costituisce un enorme apporto agli studi femministi che vedono nella violenza anche il controllo maschile sulle donne. 

Seguendo quest’approccio, gli effetti delle violenze (dagli insulti agli omicidi) vanno connessi con le strutture delle relazioni in cui sono prodotti. Il 1970 costituisce una svolta perché è a partire da questa data che i gruppi femministi iniziano a far emergere le esperienze delle donne, si aprono case-rifugio e si attivano linee telefoniche di sostegno. Inoltre, anche a livello giudico si hanno delle svolte che rivalutano il diritto di famiglia. Vengono criticate le teorie precedenti che attribuivano le cause della violenza a risposte neuronali o alla povertà. Ci si inizia a concentrare sulla vittima ed emerge che spesso gli autori dei crimini sono persone con cui la donna ha dei legami, compiendo studi sul nucleo famigliare. 

Il tema da invisibile diviene di primaria importanza e, tramite un cambiamento della società, il problema esce dallo spazio privato per entrare in quello pubblico. Vengono presi in esame aspetti quali l’atteggiamento masochista, la presenza di figli che intrappola le donne in malati rapporti e l’influenza della pornografia. Sono state mosse delle critiche, in quanto sono molti coloro che pensano che la contrapposizione tra donne-vittime e uomini-aggressori, sia riduttiva in quanto non prende in considerazioni situazioni ben diverse e analizza solo casi in cui sono coinvolti uomini e donne prettamente etero. Ulteriore punto debole rilevato riguarda l’attribuzione di passività alla donna.

Infine si pensa che molti studi non tengano conto delle diversità delle donne come la ricchezza e l’estrazione sociale.

Uno dei risultati della produzione scientifica femminista è la proposta di adottare, in qualsiasi analisi sulla violenza contro le donne (e in generale nella ricerca) un approccio di genere, capace di tener conto delle diseguaglianze e delle differenze legate al genere, che interessano tanto le pratiche quanto le rappresentazioni relative sia alle esperienze di vittimizzazione e di aggressione, sia ai percorsi di fuoriuscita dalla violenza. Il progetto di cambiamento portato avanti dal movimento femminista, fuori e dentro le accademie, aveva tra gli obiettivi quello di portare alla luce una considerazione: il fenomeno della violenza ha una direzione specifica, è agito prevalentemente dagli uomini contro le donne sulla base di asimmetrie e diseguaglianze socialmente consolidate. 

Elisabetta Donati, docente di Sociologia della famiglia presso l’Università di Torino, ha cercato di approfondire i fattori che possono incidere nel successo o nell’insuccesso degli interventi attivati in Italia a sostegno delle donne che subiscono violenza e si rivolgono ai servizi. È stato messo in luce come la mancanza di successo degli interventi non coincida con una mancata risposta dei servizi, ma sia connessa agli ostacoli che possono impedire l’allontanamento da una situazione violenta, che investono molte dimensioni legate al comportamento del maltrattante, a fattori di tipo socio-economico o legati alla rete sociale della donna vittima. 

Esistono anche questioni di tipo istituzionale, connesse cioè con il funzionamento stesso dei servizi, strettamente legato ai finanziamenti.

Ad esempio i luoghi della prima accoglienza offrono servizi per tempi limitati, spesso in co-residenza con altre donne, e possono non accogliere chi abbia dipendenze o problemi psicologici. Soprattutto, non sempre i servizi tengono conto delle diversità di tipo culturale o delle esigenze connesse a status giuridici particolari, come quelli delle donne migranti. Infine, se la donna ha, a sua volta, usato violenza per difendere sé o i suoi figli può subire procedimenti giudiziari. Inoltre possono passare molte settimane prima che i sussidi previsti siano erogati. Altro aspetto critico è infine connesso con la necessità di includere negli interventi molti attori eterogenei.

In conclusione, dobbiamo renderci conto dell’imminenza del problema e della sua concretezza. La violenza sulle donne costituisce un reale reato, su cui purtroppo dobbiamo ancora lavorare, come spiega la professoressa Donati. Negare l’esistenza del fenomeno o relegarlo a fatto di moda è sbagliato. Non possiamo smettere di indignarci.

Articolo di Gaia Iamundo.

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