Aung San Suu Kyi, leader politica in Myanmar, è stata condannata il 6 dicembre scorso (insieme all’ormai ex Presidente Win Myint, come lei membro della Lega Nazionale per la Democrazia) a quattro anni di carcere, subito ridotti a due, per reati di incitamento al dissenso e sedizione nonché per violazione delle misure anti-Covid, in particolare riguardo alla campagna elettorale condotta nel novembre 2020.
Per il 27 dicembre era inoltre attesa una nuova sentenza nel processo che vede Suu Kyi accusata di importazione e detenzione illegale di ricetrasmittenti (svariati sono infatti i capi d’imputazione tuttora pendenti sulla leader, per un totale di più di 100 anni di condanne potenziali) ma il verdetto è stato rinviato al prossimo 10 gennaio.
Com’è noto, Suu Kyi era detenuta ai domiciliari fin dal golpe militare del 1 febbraio 2021, evento drammatico ma prevedibile, dal momento che a seguito delle elezioni di novembre 2020, vinte dalla Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) con una larga maggioranza (368 seggi su 434), i militari sconfitti (rappresentati dal Partito per la solidarietà e lo sviluppo dell’Unione) avevano denunciato brogli ed irregolarità ed alluso alla possibilità di «porre rimedio» con la forza.
Grande tensione aveva generato, il 27 gennaio, un discorso in videoconferenza del generale Min Aung Hlaing (protagonista, solo qualche giorno dopo, del Colpo di Stato, oggi capo di Governo), nel quale l’uomo aveva ventilato la possibilità di abolire la Costituzione.
Minaccia subito smentita (30 gennaio) da un comunicato con cui l’esercito, anche a seguito dell’interessamento di ONU e comunità internazionale, sottolineava l’intento di voler anzi proteggere e rispettare la Costituzione.
Proprio l’1 febbraio si sarebbe dovuta tenere la prima seduta del nuovo Parlamento; ora sono invece i militari a governare e l’ex generale Myint Swe (uno dei due vicepresidenti nel governo precedente) è stato nominato Presidente ad interim.
Di fronte al Colpo di Stato e all’emarginazione degli esponenti del precedente governo, la popolazione civile non si è però arresa, continuando a manifestare nonostante le durissime repressioni (di recente pubblicazione un video che testimonia l’assalto ad un corteo da parte di un autocarro dell’esercito nel marzo 2021), le torture e le stragi.
Moltissimi i giovani che, da febbraio, sono stati arrestati e di cui non si hanno più notizie.
A questo si aggiunga il fatto che i militari praticano l’arresto dei figli degli oppositori politici, bambini e neonati, a scopo di ricatto. Particolarmente presi di mira i villaggi della regione del Sagaing (Myanmar centrale), protagonista della resistenza contro i militari: il 20 dicembre la BBC ha pubblicato un’inchiesta nella quale denuncia, grazie anche alla collaborazione di alcuni testimoni, le sevizie e gli omicidi di massa dello scorso luglio, vendetta perpetrata contro civili accusati di essere membri della People’s Defense Force.
Proprio la viglia di Natale, infine, le truppe governative hanno compiuto un ennesimo attacco contro i civili nello stato di Kayah, a maggioranza cattolica; a denunciarlo l’ONG Save the children, che parla di almeno 38 morti e di due operatori umanitari dispersi.
Quel che sarà del Paese e della sua leader è attualmente molto incerto; per il momento la resistenza civile continua (incoraggiata anche dal governo-ombra costituitosi in aprile) e il consenso intorno a Suu Kyi non si è spento.
La donna, oggi 76enne, ha alle spalle molti anni di lotta per la democratizzazione del Paese ed è inoltre figlia di un altro importante esponente politico birmano.
Il padre, Aung San, fu generale dell’esercito birmano e protagonista dell’alleanza con il Giappone nel 1942, allo scopo di liberare il Paese dalla dominazione inglese. Il risultato fu tuttavia quello di sostituire un oppressore con un altro: il Giappone lasciò all’allora Birmania un’indipendenza solo formale. Nel ’45 dunque la Birmania cambiò fronte, schierandosi con gli alleati (Aung San divenne uno dei leader dell’Anti-Fascist People’s Freedom League) e nel ’48, a guerra terminata, rivendicò la fine del regime coloniale.
Il successivo percorso politico si sarebbe però rivelato ancora molto duro: le prime elezioni, che sancirono la vittoria dell’Anti-Fascist People’s Freedom League, poterono tenersi soltanto nel 1962, in un clima di grande tensione. Quello stesso anno si svolse il Colpo di Stato militare, con la costituzione del Burma Socialist Programme Party (leader Ne Win, già primo ministro tra il 1958 e il 1960), di ideali marxisti e buddisti; seguì la soppressione di tutti gli altri partiti ed una fase di nazionalizzazioni.
Ne Win rimase stabilmente al potere fino al 1988, anno della protesta popolare cui prese parte la stessa Suu Kyi: rientrata in patria dopo una lunga assenza (durante gli studi aveva vissuto in India e Inghilterra, dove si era infinite stabilita), divenne simbolo dell’opposizione non-violenta e promosse la costituzione della Lega Nazionale per la Democrazia. Costretta agli arresti domiciliari, interessata da una pesante campagna di diffamazione ad opera del nuovo governo militare instauratosi alla caduta di Ne Win, riuscì comunque ad ottenere con il suo partito l’82% dei voti alle elezioni del 1990 ma venne successivamente estromessa dalla Lega per volere dei militari.
Tra il 2010 e il 2015 una serie di riforme cambiò il volto del Myanmar, dando luogo (già nel novembre 2010) ad un governo civile considerato tuttavia ancora emanazione dei militari.
Finalmente Aung San Suu Kyi poté riottenere una libertà piena. Le elezioni del 2015, le prime considerate libere (ma escluse dal voto sono state centinaia di migliaia di persone, tra cui anche la minoranza musulmana dei Rohingya) sono state per la NLD e per Suu Kyi un grande successo, con oltre il 70% dei voti: da quel momento la leader birmana ha potuto di fatto governare, sebbene i militari abbiano mantenuto di diritto un quarto dei seggi nonché il veto su eventuali proposte di modifica della Costituzione. Suu Kyi non ha inoltre potuto rivestire la carica di Presidente, in virtù di un articolo della stessa Costituzione che preclude questo ruolo a chiunque sia coniugato con uno straniero o abbia figli con passaporto estero.
Moltissimi i premi assegnati a Suu Kyi per il suo impegno in difesa dei diritti e della democrazia: tra gli altri, il premio Sakharov nel 1990 e il Nobel per la Pace del 1991.
Tuttavia la sua fama internazionale ha ben presto iniziato a declinare, soprattutto quando, a partire dall’agosto 2017, l’esercito birmano ha ripreso le violenze a danno della minoranza musulmana dei Rohingya nello Stato del Rakhine, gravemente discriminata fin dal 1948 e considerata la più perseguitata al mondo: l’ONU è giunto a parlare di genocidio.
Molte le critiche della comunità internazionale contro la leader birmana, rimasta silente di fronte alle stragi.
Nel settembre 2017 anche un altro celebre Nobel per la Pace, Malala Yousafzai, si è pronunciata duramente contro Suu Kyi, esortandola a riconoscere e prendere posizione contro gli episodi di pulizia etnica.
In un discorso pronunciato il 19 settembre 2017, Aung San Suu Kyi ha però sminuito la situazione, dichiarandosi pronta ad affrontare gli accertamenti della comunità internazionale e definendo i Rohingya fuggiti (più di 400mila i profughi in Bangladesh) una minoranza rispetto a coloro che hanno deciso di rimanere nella regione. Questa sarebbe stata a suo dire la prova della scarsa gravità della situazione.
In conseguenza svariati premi e riconoscimenti le sono stati ritirati, tra cui anche il Premio Sakharov; per quanto riguarda il Nobel per la Pace, il regolamento non prevede questa opzione, dunque Suu Kyi mantiene tuttora il titolo.
In definitiva la leader birmana ha ormai perso la stima della comunità internazionale; non per questo tuttavia deve essere abbandonato il suo popolo che, ancora una volta, si vede sottratta la speranza di ottenere pace e democrazia.