
Spesso e volentieri il cinema europeo, e in particolare quello indipendente, riesce a donare delle perle di inestimabile valore, impossibili da comparare a un certo blockbuster hollywoodiano che ormai, la maggior parte delle volte, ha finito le cose da dire. La Trilogia dei Colori, del 1993 e 1994, a firma del polacco Krzysztof Kieślowski e co-sceneggiata dallo storico collaboratore del regista, Krzysztof Piesiewicz, è la prova tangente che il racconto attraverso il grande schermo può arrivare anche da sceneggiature senza troppi dialoghi e spiegoni, e in cui a parlare c’è prima di tutto la messa in scena.
L’intento di Kieślowski era quello di raccontare tre storie legate al motto della Rivoluzione francese: Liberté, Égalité, Fraternité.
Il regista mette così in scena tre film correlati ai colori della bandiera francese: il film Blu, incentrato sul tema della libertà di una giovane donna, la quale ha appena subito un terribile lutto; il film Bianco, forse il più politico, nel quale si vede una Polonia liberata dal giogo sovietico, che riscopre, appunto, l’egualità promessa dall’occidente; e infine quello che è stato definito da tutti come il capolavoro indiscusso di Kieślowski, ovvero Rosso, la storia di una modella e di un giudice in pensione uniti da una fratellanza comune e apparentemente discutibile.

Non basterebbe un solo articolo di giornale per parlare dei tre film, in quanto tutti sono degli autentici capolavori di Kieślowski e meriterebbero recensioni specifiche. Forse perché la Trilogia dei Colori racchiude dei film tra i migliori che la Polonia è riuscita a donarci, o perché l’abilità di Kieślowski e Piesiewicz sta proprio nello scrivere storie che intimamente appartengono alla loro anima e alla loro diretta esperienza (e questa cosa traspare soprattutto in Rosso), ma allo stesso tempo riescono a evocare, anche grazie alla perfezione registica del Nostro, una storia estremamente comunitaria che riassume perfettamente i temi rivoluzionari e fondatori della nostra società e della nostra vita.
Tre Colori sono così lo specchio, in positivo e in negativo si intende, di un’Europa che negli anni ’90 sembra risvegliarsi dal sogno profondissimo della Guerra Fredda, ma che, andando avanti con il tempo e con la narrazione, si accorge che quel sogno non era che la realtà intrinseca del popolo.
Kieślowski ci dice come quel sogno, in realtà, ha lasciato conseguenze, soprattutto nella vita privata dei cittadini: in Tre Colori vediamo personaggi semplici con storie uniche, ma soprattutto vediamo grandi protagoniste: Juliette Binoche in Blu, Julie Delpy in Bianco e Irène Jacob in Rosso. Le donne di Kieślowski sono nevrotiche, ma anche vendicative, puramente femministe e irredentiste dei propri spazi sociali.

NeiTre Colori viene privilegiato il dramma familiare, non quello politico e sociale che invece rimane sommerso facendo da sfondo: in Blu la protagonista Julie incarna i sentimenti di una vedova distrutta che cerca di guadagnare la propria libertà spirituale; in Bianco è invece il protagonista Karol (Zbigniew Zamachowski) un self made man illuso da un amore che lo imprigiona nella sua mente; in Rosso, a suo modo, appare un andirivieni psicologico del legame affettivo di una coppia, di come nasce un amore e di come spesso fallisce.
Tutto ciò è reso nel modo più intimo e minimalista possibile: senza un uso massivo di effetti speciali, il cinema di Krzysztof Kieślowski si concentra proprio sul narrare storie semplici e quotidiane, ma dal senso profondissimo. Il risultato su schermo è reso soprattutto da una regia calcolata al millimetro e da una fotografia che dialoga con costumi e scenografie in modo perfetto; ovviamente il lato tecnico è tutto in tema: colori freddi, azzurrognoli e oggetti di scena blu per la sofferente Julie; luci sempre fredde ma quasi celestiali e spazi bianchissimi della Varsavia invernale per Karol; e rossi sangue accesi per la passionale e amorevolmente delusa Valentine in Rosso.

Quest’ultimo sarà anche a tutti gli effetti il film testamento di Kieślowski, morto prematuramente nel 1996 a seguito di un’operazione chirurgica a cuore aperto. La pellicola, che riscosse un enorme successo a Cannes nel ’94, trattando il tema della morte, della solitudine, della sofferenza amorosa, ma anche di come, nel dolore, la cosa importante è ritrovare un fratello (il rosso della bandiera francese collegata al tema della fratellanza appunto), conclude una carriera stroncata ma non per questo chiusa: Kieślowski, dopo Tre Colori, era infatti al lavoro su un’altra trilogia ispirata alla Divina Commedia di Dante, anche qui dai tratti esistenziali ma non pesanti o prolissi.
È un po’ come, insomma, se il regista abbia voluto lasciarci un testamento incompiuto ma di cui possiamo rivivere eternamente, seppur con l’immaginazione, attraverso la Commedia del nostro poeta fiorentino.
Tre Colori sono quindi tre film totalmente da rivedere e riscoprire: tre grandi capolavori del cinema contemporaneo, purtroppo recentemente dimenticati, che però, per chi ama la settima arte, rappresentano un punto fermo encomiabile non minore rispetto ad altri mostri sacri del calibro di Ingmar Bergman o David Lynch.
Tre Colori è la trilogia tra le più simboliche del nostro tempo la quale, attraverso la purezza infinita del medium cinematografico, riesce a raccontare storie ancora attuali; perché Krzysztof Kieślowski riesce proprio dove molti falliscono: rappresentare senza manierismi inutili i valori, le inquietudini, le passioni, i pensieri e in breve l’essenza della nostra società; un po’ come se ci conoscesse tutti, come se fossimo tutti suoi piccoli fratelli.