
Era il 30 gennaio 2020 quando in Italia venivano confermati i primi due casi di contagio da COVID-19. A due anni di distanza da quell’avvenimento che ha completamente rivoluzionato le nostre abitudini, quel che è certo è che la pandemia ha avuto – e sta avendo – un forte impatto sulle disuguaglianze di genere. Ne abbiamo parlato, focalizzandoci in particolare sull’ambito accademico, con il professor Flaminio Squazzoni, docente di Sociologia al dipartimento di Scienze sociali e politiche dell’Università Statale di Milano e direttore di BehaveLab, nonché membro della commissione europea “Expert Group on the impact of the COVID-19 pandemic on gender equality in R&I”.
Professor Squazzoni, com’è composta la commissione europea di cui Lei è membro e di cosa si occuperà?
La composizione della commissione è ancora confidenziale, quel che è certo è che verranno rispettati criteri di rappresentatività in termini di nazionalità, genere e competenze, per cui ci saranno sociologi ma anche economisti, biologi, fisici. In totale saremo 15 e lavoreremo in modalità mista, con meeting sia a distanza che a Bruxelles. I lavori inizieranno a fine gennaio di quest’anno e proseguiranno fino a gennaio 2023, quando consegneremo un rapporto di ricerca che verrà usato dalla comunità europea in sede legislativa o per specifici programmi legati al tentativo di risolvere, o quantomeno alleviare, l’impatto che la pandemia ha avuto sulle disuguaglianze di genere nell’ambito della ricerca e dell’innovazione.
Sempre sul tema dell’impatto della pandemia sul gender gap all’interno della comunità scientifica, Lei ha diretto uno studio in cui è stato analizzato il livello di produttività di ricercatori e ricercatrici durante la prima ondata di COVID-19. A quali risultati siete giunti?
Per realizzare lo studio abbiamo costruito un accordo ad hoc con la casa editrice Elsevier, sfruttando una precedente collaborazione che aveva visto il coinvolgimento di circa 260 ricercatori europei e non. Questo accordo ha permesso di accedere ai dati, di norma confidenziali, che sono stati analizzati per studiare l’impatto della prima ondata pandemica (febbraio-maggio 2020) sulla produttività di circa 6 milioni di scienziati e scienziate.
Come prima cosa abbiamo preso in considerazione le tendenze pre-pandemia per stimare il numero atteso di sottomissioni (numero di articoli inviati, ndr) da parte di ricercatori e ricercatrici. In altre parole, per ciascun individuo abbiamo calcolato quante sottomissioni fosse ragionevole aspettarsi sulla base del numero di articoli che quello stesso individuo aveva inviato nel periodo febbraio-maggio dell’anno precedente. Il primo risultato era piuttosto prevedibile: lo scoppio della pandemia ha fatto registrare una crescita esponenziale del numero di sottomissioni in particolare per quanto riguarda le riviste di medicina, in cui si è registrato un aumento pari al 60%. Tuttavia, a beneficiare di questa maggiore richiesta di produzione scientifica sono stati principalmente gli uomini, dunque, dal punto di vista comparativo, le donne hanno perso terreno.
Nel paper si parla di una differenza significativa tra ricercatrici giovani e ricercatrici con più esperienza. Ce ne può parlare?
Per stimare l’età di ricercatori e ricercatrici abbiamo sfruttato le informazioni relative alla data della loro prima pubblicazione, misurando la distanza temporale tra questa e il 2020. A ciascun individuo abbiamo, quindi, assegnato una fascia di età, nonché un livello di anzianità accademica. Questo procedimento ci ha permesso di dividere il campione in soggetti junior (da dottorandi/specializzandi a quarantenni) e soggetti senior. Tenendo in considerazione la variabile età così costruita, ci siamo accorti che il gap relativo alle sottomissioni è stato più accentuato per le ricercatrici junior. Questo fenomeno può essere spiegato ipotizzando che le giovani scienziate siano state penalizzate dalla loro precarietà in ambito lavorativo e dal maggior carico di lavoro di cura in ambito familiare, mentre per le colleghe senior il fenomeno potrebbe essere stato più debole a causa della loro maggiore stabilità lavorativa e, verosimilmente, per via della più avanzata età dei loro figli.
Per rendere il nostro modello ancora più robusto abbiamo anche usato le informazioni sull’affiliazione accademica per assegnare ciascun individuo al suo luogo di residenza. Incrociando questo dato con quello sulla mobilità ottenuto tramite Google Mobility, siamo stati in grado di stimare il momento in cui per quell’individuo è iniziato il lockdown, che ha significato impossibilità di recarsi presso i laboratori e di incontrarsi con i propri gruppi di lavoro. Questo ci ha permesso di confermare che, a parità di lockdown, le ricercatrici giovani hanno perso più opportunità rispetto a ricercatori sia giovani che anziani.
Nel vostro studio evidenziate anche una differenza tra sottomissioni e revisioni. Di cosa si tratta?
Nell’ambito accademico bisogna distinguere tra sottomettere un articolo, ossia inviarlo alla casa editrice perché sia approvato (e quindi pubblicato) o rigettato, e revisionare articoli altrui, ossia valutarli ed eventualmente suggerire come migliorarli. Se sul numero di sottomissioni abbiamo registrato un preoccupante gender-gap, il pattern è più stabile sul fronte del lavoro di revisione. Occorre specificare che quest’ultimo va a beneficio dell’autore (o dell’autrice), il quale, grazie al feedback dei colleghi, è in grado di migliorare il proprio articolo. Possiamo affermare, dunque, che, se da una parte le donne hanno continuato a fornire un buon servizio alla comunità scientifica, dall’altra ne hanno beneficiato meno come autrici.
Pensa che questo svantaggio in termini di sottomissioni avrà delle ripercussioni sul lungo periodo?
Attualmente stiamo conducendo un follow-up per capire se le donne, a parità di altre condizioni, abbiano ricevuto più accettazioni o rigetti rispetto ai loro colleghi uomini, il che ci permetterà di dare uno sguardo più informativo sui possibili effetti a lungo termine di questo svantaggio. Ad ogni modo, quello che possiamo già dire con certezza è che se non si sottomette non si pubblica, non si viene citati, non cresce l’impatto delle proprie ricerche, si hanno meno fondi e quindi minori possibilità di carriera…
In conclusione, visti i risultati ottenuti, Lei e i suoi colleghi avanzate alcuni suggerimenti riguardo a possibili provvedimenti che, qualora fossero adottati, permetterebbero di alleviare le conseguenze negative della pandemia sul gender-gap a livello accademico. Quali sono i più importanti?
Dal punto di vista del finanziamento dei gruppi di ricerca, gli accorgimenti che si possono adottare permetterebbero di realizzare un ambiente lavorativo più equo già nel breve periodo: bisognerebbe rivedere gli indicatori che attualmente vengono impiegati per determinare promozioni, avanzamenti di carriera e assegnazioni di fondi di ricerca. Oggi, infatti, questi indicatori sono prettamente quantitativi (si guarda alla produttività, al numero di citazioni e di pubblicazioni su riviste etc.), tuttavia la pandemia ha avuto un impatto che non può essere trascurato: occorre, pertanto, adottare criteri multidimensionali che non diano importanza solo alla produttività e alle citazioni di un/una scienziato/a, ma che considerino anche come questo impatto ha modificato le opportunità lavorative del singolo. Ad esempio, si potrebbe decidere di non considerare lo svantaggio che ha penalizzato le ricercatrici o, al contrario, di non considerare il grande vantaggio acquisito dai ricercatori nei primi mesi del 2020.
Per quanto riguarda i progetti di medio-lungo periodo, invece, bisognerebbe lavorare alla realizzazione di ambienti di lavoro gender-friendly e sul rafforzamento delle posizioni di leadership femminile all’interno dei laboratori, in modo da favorire una diversa negoziazione della divisione sessuale dei ruoli all’interno della vita familiare. È chiaro, infatti, che se in una coppia le posizioni di prestigio sono ricoperte sempre dall’uomo, la carriera che verrà rallentata sarà sempre quella della donna.