Del: 21 Gennaio 2022 Di: Alessandra Pogliani Commenti: 0

Radici racconta fatti, personaggi e umori della storia della Prima Repubblica italiana, dal 1946 al 1994. A questo link è possibile trovare gli articoli precedenti della rubrica. 


«Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani». Una frase, quella attribuita all’intellettuale ottocentesco Massimo D’Azeglio, che condensa parecchi decenni di vicende del Bel Paese. All’epoca, in una realtà sociale arretrata e con una scarsa alfabetizzazione, il ricorso al canale simbolico divenne la scorciatoia principale per costruire un’identità nazionale condivisa. Lo spazio urbano si trasformò nel teatro di ciò che George Mosse ha definito una “religione laica”: un insieme di rituali civili con cui la nazione si auto-rappresenta di fronte ai suoi cittadini, plasma la loro identità in senso collettivo facendo perno sull’estetica, sulla suggestione di tutto ciò che è atavico e, perché no, pure sul coinvolgimento emotivo. Vedere per credere, insomma. 

Come si nazionalizzano le masse? La pedagogia patriottica è un dedalo infinito di politiche della memoria: sussidiari di scuola, piazze intitolate a eroi risorgimentali e partigiani, libriccini come “Cuore”, inni e discorsi ufficiali, programmi alla tivù, celebrazioni, ricorrenze. Sono tutti pezzetti di quella che col tecnicismo odierno chiamiamo Public History: la storia di uso pubblico e per il bene pubblico, intesa come disciplina che si muove tra ieri e ora col passo ampio delle analogie, stando attenta a non cadere nel peccato dell’anacronismo. Fare Public History è cercare nel serbatoio del passato miti di fondazione, ideali condivisi, tracce di risposta alle domande del presente. 

Storia e memoria procedono sempre insieme, una riflessa nell’altra: l’attuale è già selezione e comunicazione di sé, e ogni accento nel flusso degli eventi si irrigidisce in un ricordo collettivo prima ancora di finire all’ufficio stampa.

A ogni nazione la sua autobiografia in tempo reale. Come cogli specchi, allora, della Prima Repubblica si può parlare in due modi. Primo: si può star lì a elencare, con rigidità purtroppo scolastica, una manciata di fatti che il più delle volte non interessano a nessuno. Oppure, a voler fare gli originali, possiamo guardare nel vetro dell’italianità di allora, frugare nell’atteggiamento auto-percettivo di uno Stato e della sua classe politica, soffermarci sul 1961 e vedere un po’ che volto salta fuori. Italia ‘61, nota anche come Esposizione Internazionale del Lavoro, è il nome delle celebrazioni per il primo centenario dell’Unità d’Italia, organizzate a Torino nel 1961. Dopo l’inaugurazione del presidente Gronchi, tre mostre furono aperte al pubblico: la mostra storica, quella dedicata alle regioni e quella del lavoro. 

Il ricordo della guerra non era ancora lontano, e due linee principali guidavano le politiche della memoria: liberarsi dell’ultra-nazionalismo fascista e fare della Resistenza un nuovo mito genesico accanto a quello risorgimentale. Un percorso non semplice: la guerra fredda aveva portato a memorie divise e parziali dell’esperienza partigiana, con manifestazioni non più unitarie come quelle del primo anno repubblicano. Il 1961 segnò invece un’inversione di tendenza: l’esposizione fu un successo, e anche i cortei del 25 aprile, pur con qualche eccezione agli estremi, mostrarono una compattezza degna del 1946. Come mai a inizio anni Sessanta la Resistenza tornò un fulcro ideologico condiviso?

Torino 1961 è un cronotopo che ci dice molto sull’Italia di allora: proprio agli albori del decennio del boom economico si scelse come città delle celebrazioni unitarie l’antica capitale sabauda nonché prima capitale italiana, e il capoluogo che era, nel presente di allora, una punta del triangolo industriale. Come in un passaggio di testimone: l’Italia risorgimentale stava entrando nella modernità e si consegnava a un’Italia nuova, quella del progresso, del lavoro, degli anni a venire. E la Resistenza, rispetto al Risorgimento, era con i suoi principi e valori più vicina al contemporaneo, più adatta al ruolo di fondamento di un’identità nazionale da saldare in un momento cruciale: il passaggio dall’era arcaica e contadina a quella industriale. 

L’inizio dei Sessanta fu all’insegna delle grandi trasformazioni: l’economia cresceva trainata dal settore automobilistico e la struttura occupazionale si sbilanciava sempre più a favore del secondario, mentre nelle case entravano beni di consumo, televisori, rotocalchi.

Lo sviluppo non era certo privo di ombre, e avvenne al prezzo di livelli salariali molto bassi, consentiti dalla disoccupazione endemica e dalla grande disponibilità di manodopera nel Sud, e di grossi tagli agli spazi sindacali. Del resto, come aveva rivelato un’inchiesta parlamentare sulla miseria qualche anno prima, le condizioni di una buona fetta di popolazione rimanevano ancora drammatiche. C’era poi chi, da sinistra, guardava con malcelata preoccupazione al treno dei desideri consumistici: in una celebre intervista del gennaio 1963, Pasolini parlò di tuguri attrezzati con la televisione, icone contraddittorie di un paese che aveva smarrito le sue origini.  

I rituali civili e i discorsi sulla nazione sono sempre ambivalenti: nati per consolidare una realtà politica e integrarne gli abitanti, possono creare perplessità, divisioni, narrazioni alternative. Così anche l’Italia delle grandi trasformazioni, intenta a celebrare i suoi cent’anni proprio mentre si proiettava sull’avvenire, attirava su di sé giudizi tanto entusiasti quanto pessimistici. Interpretazioni speculari eppure univoche in un aspetto: la consapevolezza di una cesura, di un cambiamento irreversibile che avrebbe rimodellato gli italiani fin dalla quotidianità del “Carosello” – cittadini di un paese nuovo e ormai, pur con tutte le difficoltà del caso, passato dalla necessità di ricostruirsi alle ambizioni dello sviluppo.  

Cosa aspettarsi invece da uno Stivale che si ritroverà a celebrare il proprio duecentenario nel 2061? Nell’era della globalizzazione, del tramonto delle nazioni e dei nuovi partiti-movimento che fanno dell’appartenenza micro-territoriale una bandiera, difficile non essere cinici sull’Italia che saremo. Basti pensare a come ci vediamo già! Arci-italiani se si parla di pallone o come conseguenza di qualche insofferenza etnica, anti-italiani quando appaiono i soliti ciarloni col vitalizio sul primo canale. O magari fieri cosmopoliti radical-chic che dall’italianità prendono le distanze, per timore di essere identificati con l’intruglio di familismo buzzurro, scarso civismo e mafie di ogni sorta che pensiamo essere la nostra immagine all’estero. Non è forse questo il nostro riflesso allo specchio?

Un neopatriottismo repubblicano senza enfasi, come diceva Napolitano qualche anno fa, potrebbe essere il punto di partenza per una rilegittimazione delle istituzioni e al contempo per un maggiore senso civico. A tal proposito, alla tentazione scettica farebbero da ottimo contraltare le parole di Giuliano Amato: il presidente del Comitato Nazionale delle celebrazioni unitarie svoltesi nel 2011 commentò che «il passato è ciò che vogliamo ricavarne a seconda del futuro che scegliamo», sottolineando il successo dell’evento nel coinvolgere i più giovani. In effetti, anche la pandemia ci sta restituendo l’affresco di una generazione, proprio quella imbevuta di social network, che sui banchi veri ci vuole tornare. E pretende una scuola migliore, un po’ meno assertiva e più aperta al dialogo, che insegni a tirar su un ponte tra ciò che si studia e la concretezza dell’essere cittadini. Pare quasi un’incongruenza eppure, nell’età del disordine e del presentismo digitale, c’è ancora un’Italia giovane che cerca le sue radici proprio perché vede un domani. 

Alessandra Pogliani
Ostile al disordine e col cruccio di venire a capo dell’anarchia del mondo, per contrappasso nella vita studio storia.

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