Del: 24 Febbraio 2022 Di: SIR Commenti: 2
EliSIR. La paura della guerra più della guerra stessa

EliSIR è la rubrica di geopolitica e relazioni internazionali curata su Vulcano da SIR – Students for International Relations, associazione studentesca della Statale.


Il presente articolo è stato scritto ed editato prima della recente invasione dell’Ucraina da parte della Russia, avvenuta nelle prime ore di giovedì 24 febbraio. Si è deciso di pubblicarlo ugualmente poiché si ritiene che l’analisi geopolitica che vi è espressa resti valida nelle sue considerazioni. Sono stati però aggiunti in calce dei paragrafi di aggiornamento sulla situazione ancora in evoluzione.

Negli ultimi tempi i media nostrani e quelli europei hanno mantenuto i riflettori puntati sulla crisi in Ucraina, facendo eco alle numerose ipotesi che da Washington scommettevano sulla data di una possibile invasione russa. Dal cospicuo ammassamento di truppe agli sgoccioli dello scorso anno la crisi si è infittita vertiginosamente.

Si sono svolte numerose esercitazioni, il numero dei contingenti e degli armamenti è cresciuto fino a minacciare direttamente ogni centimetro di suolo ucraino e, questa settimana, Putin è di fatto riuscito a schierare soldati nelle repubbliche separatiste filorusse Donec’k e Luhans’k senza tecnicamente invadere l’Ucraina. Infatti, la Duma (la camera bassa russa) ha concesso a Putin l’uso della forza al di fuori della Federazione Russa e il Ministero della Difesa ha autorizzato il dispiegamento di forze armate nelle repubbliche filo-russe su richiesta dei due neo-proclamati presidenti. Mentre poco prima, in un discorso alla Nazione, Putin firmava il decreto per riconoscere l’indipendenza di tali repubbliche.

Secondo Washington, l’invasione doveva essere programmata il 16 febbraio, data in cui il primo ministro Ucraino ha dichiarato il Giorno di Unità Nazionale. Poi il 20 febbraio, in concomitanza con la fine delle Olimpiadi. Poi ancora, il prima possibile, ma un’invasione in grande stile non sembra ancora plausibile. Piuttosto, è più probabile che la pressione accumulata sfoci in conflitto a bassa intensità, in cui i russi potrebbero far arretrare gli Ucraini di qualche decina di chilometri fino ai confini rivendicati dalle due repubbliche. Soprattutto alla luce delle recenti affermazioni di Biden, che in diplomatichese ha fatto capire a Putin che piccole incursioni sarebbero tollerate: “It’s one thing if it’s a minor incursion and then we end up having a fight about what to do and not do [riferendosi alle divisioni nel fronte euroatlantico]”.

E allora, perché a sentire i media occidentali sembra di essere perennemente sull’orlo della terza guerra mondiale? Sarà forse che la guerra non è interesse di nessuno, ma è la paura della guerra ad essere nell’interesse di tutti.

Per comprendere il meccanismo della paura bisogna però fare una premessa. Col passare degli anni dal crollo del bipolarismo, il mondo è diventato sempre più volatile, incerto, complesso e ambiguo. Ne deriva che le intenzioni altrui possono essere facilmente malintese. La percezione del pericolo gioca quindi un ruolo importantissimo nel calcolo delle probabilità del conflitto. Conseguentemente, la paura diventa l’arma più potente che si ha per alterare la percezione delle proprie intenzioni e per spingere l’avversario a prendere una decisione: da rivendicare come vittoria, se favorevole; da usare come pretesto, se sfavorevole. 

Questa premessa è funzionale per comprendere il gioco a cui stanno giocando i due soggetti della contesa: Russia e Stati Uniti. In cui l’Ucraina è l’oggetto e l’Europa (leggasi: sfera d’influenza americana) la posta in gioco. Dovrebbe essere ormai chiaro che l’obiettivo di Mosca non è quello di dar vita a un conflitto su larga scala alle porte di casa propria, bensì quello di mantenere uno spazio cuscinetto neutrale tra sé e la NATO e acuire le differenze in seno all’Alleanza Atlantica sia tra americani e “alleati” europei che tra gli europei stessi.

La ragione di questi obiettivi risiede nel cronico senso di accerchiamento che affligge la Russia: pressioni americane in Europa e dal Pacifico, pressioni jihadiste da sud-ovest, pressioni cinesi da sud-est e la tensione storica con il Giappone fanno sì che la Russia cerchi di espandere sempre di più la propria sfera di influenza per allontanare la prima linea di difesa dalla madrepatria. Per questo motivo la galoppante espansione della sfera di influenza americana in Europa, sotto le vesti della NATO e dell’Unione Europea, ha spinto i russi a tracciare delle “linee rosse” invalicabili – tra cui l’insindacabile veto sulla possibile entrata di Ucraina e Georgia nella NATO. Quindi, se a Mosca l’Ucraina serve per distanziarsi dalla NATO, avrebbe senso invadere l’unico stato che divide te stessa dal nemico da cui vuoi allontanarti? Non solo il risultato sarebbe controproducente, ma Putin sarebbe un pazzo suicida”.

Dopo aver compreso la posta in gioco, bisogna comprenderne le regole. L’assertività moscovita non va scambiata per cattiveria nuda e cruda, ma intesa come leva per non sedersi al tavolo delle trattative da una posizione svantaggiata. Nell’anarchia delle relazioni internazionali, in questo mondo volatile, incerto, complesso ed ambiguo, è sostanzialmente attraverso la potenziale minaccia che si spinge l’avversario impaurito a (re)agire. Ne deriva che alzare ripetutamente la posta in gioco man mano che si paventa la possibilità di una soluzione diplomatica è l’unico modo che Mosca ha per risultare davvero credibile e permettersi di parlare agli americani alla pari, e non come secondi. Qui la retorica dell’establishment liberale americano storicamente russo-fobico ha reso il gioco a Putin estremamente facile.

Quando all’inizio del mandato Biden ha definito Putin “un assassino”, di fatto gli ha servito l’arma della paura su un piatto d’argento.

Putin, da astuto autocrate qual è, ha sfruttato questa etichetta per seminare panico e discordia negli europei. Se l’elemento chiave di un’invasione è la sorpresa dell’attacco, perché far sì che il dispiegamento di truppe e mezzi al confine con l’Ucraina avvenga alla luce del sole? Forse perché il punto non è l’invasione in sé, ma i meccanismi che l’invasione scatenerebbe. Già abbastanza chiari ai russi; un po’ meno agli americani; men che mai agli europei. Le voci in Europa riguardo alla reazione da tenere in caso di invasione sono estremamente discordanti. Ma non potrebbe essere altrimenti, visto che discordanti sono le posizioni stesse degli europei quasi ovunque.

Diffondere il panico creando un possibile scenario bellico è un bluff che serve a svelare le vere posizioni degli europei. Il Regno Unito è russo-fobico per definizione. Polonia e Romania sono i pilastri americani anti-russi e insieme ai paesi Baltici non possono esimersi dal contribuire a un eventuale conflitto con la Russia. Ed è proprio sulla costruzione di batterie missilistiche NATO in Polonia e Romania che Putin si è detto tanto preoccupato.

Al contrario, Austria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Croazia e Ungheria hanno tenuto delle posizioni molto più restie riguardo la partecipazione delle proprie forze armate in un conflitto tra NATO ed Ucraina. Soprattutto nel caso della Croazia, in cui il Presidente ha affermato che in caso di guerra la Croazia avrebbe ritirato le proprie forze armate in seno alla Nato. O, peggio, dell’Ungheria, come dimostra la visita di Orban a Putin, in cui si paventava un incremento delle forniture energetiche dalla Russia mentre si negava l’ingresso di altri militari NATO nei propri confini.

Vi sono, infine, le posizioni degli europei più occidentali, soprattutto della triade Italia-Francia-Germania, focalizzate su una risoluzione diplomatica della vicenda e quindi più aperte al dialogo.

Questa divisione delle posizioni europee, alquanto semplificatoria ma efficace, serve in conclusione a comprendere la ragione per cui i toni dei nostri media sono così forti.

Ovvero, trovare il nemico fuori dai propri confini per aumentare il senso di compattezza e bypassare le divisioni interne. Si crea quindi una discrasia tra realtà e propaganda. La realtà vede posizioni diverse e contrastanti. La propaganda cercare di nasconderle. La prima resa ancora più reale dalla minaccia incombente. La seconda sempre più intensa man mano che la minaccia incombe. In tutto questo chi vince è la Russia, che senza sparare un colpo ora ha formalizzato il pieno dominio delle repubbliche separatiste nel Donbass così come fece in Georgia nel 2008.

Le risposte americane arriveranno. Ma pazienza: per i russi è una questione vitale, per noi “europei” una questione ideologica. E alla fine, a conti fatti, lo status quo va bene a tutti. L’importante è consolidarlo, perché la vera partita, quella nell’Indo-Pacifico contro la Cina, deve ancora iniziare. E, senza un’intesa con i russi, gli americani si ritroverebbero … in alto mare.


Nella notte del 24 febbraio Putin ha annunciato e sferrato una dura offensiva ai danni dell’Ucraina. Se da una parte l’attacco ha chiaramente smentito l’improbabilità di un’invasione argomentata nel presente articolo, dall’altra ha confermato le ragioni strategiche, espresse in questa sede, che hanno portato alla mossa della Russia. Il primo obiettivo della strategia russa rimane mantenere uno spazio cuscinetto tra sé e la NATO. Tanto che, nel discorso alla nazione della notte scorsa, Putin ha affermato esplicitamente che l’obiettivo delle “operazioni militari speciali” sarebbe quello di annichilire le forze di difesa ucraine con l’obiettivo di demilitarizzare il Paese, mentre ha minacciato chiunque voglia intervenire nell’offensiva in Ucraina di subire «conseguenze mai viste prima».

Perché, allora, se a Mosca l’Ucraina serve per distanziarsi dalla NATO, sta conducendo un’offensiva contro l’unico stato che divide sé stessa dal nemico da cui vuole allontanarsi? Probabilmente perché lo stallo dei negoziati tra Russia e Stati Uniti ha spinto Putin ad alzare ulteriormente la posta in gioco, soprattutto dopo che gli americani hanno paventato “solo sanzioni” come ritorsioni alle azioni russe, prima nel Donbass e poi nel resto dell’Ucraina.

Inoltre, l’offensiva lanciata esaspera il meccanismo della paura. Il primo ministro ucraino ha affermato che gli ucraini sono rimasti soli a combattere, nessuno li aiuta «perché tutti hanno paura». Ed è esattamente questo il secondo obiettivo di Putin: diffondere la paura nelle crepe dell’Occidente per separare gli animi. La debole e non coesa risposta dell’Occidente può significare due cose. Da una parte, è probabile che gli americani non abbiano giocato già tutte le carte in mano loro per riservare altre sanzioni in un secondo meno. Ergo, si aspettano (e concedono) un ulteriore aggravamento della situazione. Dall’altra, le sanzioni europee sull’esportazione di gas russo sono ambigue e non definitive, proprio a causa della forte interdipendenza energetica che rende il continente (soprattutto nel settore centrorientale) quasi esclusivamente dipendente dal Cremlino. Ad ogni modo, l’Ucraina è stata lasciata a combattere da sola. La paura inflitta da Putin potrebbe avere forti vantaggi sul piano tattico e strategico. La non ingerenza degli americani e degli europei è di fatto il riconoscimento del fatto che l’Ucraina non è strategicamente rilevante. Inoltre, se gli europei avessero voglia di morire per gli ucraini, trascinerebbero loro stessi in un vicolo cieco.

Sbaglierebbe Putin a vedere nella relativa debole risposta euroatlantica il riconoscimento di un “diritto di sfera di influenza” sul territorio ucraino – almeno per la parte ad est del fiume Dnepr?


Dal punto di vista militare, l’offensiva ha sfruttato la cognizione della superiorità sul campo di battaglia soprattutto nelle prime ore del conflitto, con l’obiettivo di paralizzare la percezione nemica e demoralizzare l’avversario (Shock and awe doctrin o dottrina del dominio rapido). Il largo impiego di elicotteri per la distruzione di obiettivi in profondità dimostra la necessità dei russi di compiere attacchi chirurgici su obiettivi bellici, aeroporti e snodi ferroviari (non strategici), centrali elettriche e rete di telecomunicazione in tutto il paese anche a costo di grosse perdite tra le file russe. Vengono risparmiate, per ora, infrastrutture come ponti, autostrade, aeroporti strategici e la rete idrica (almeno nell’offensiva scaturita verso Nord dalla Crimea, nella quale i russi sono arrivati al Dnepr, riuscendo a riattivare l’acquedotto che riforniva la penisola). 

Per ultimo, è bene ricordare che un attacco efficace è volto a paralizzare rapidamente il Paese, non annichilirlo. La Marcia su Kiev dalla Bielorussia è la strada più veloce per far desistere la testa politica dell’Ucraina e interrompere le comunicazioni (e le decisioni) che si dipanano dal centro verso la periferia del Paese: questo deve essere l’obiettivo primario per paralizzare il Paese colpito. Ma finora i russi non ci sono riusciti, nonostante ieri diversi analisti temevano che entro la sera l’Ucraina non avrebbe più avuto a disposizione un’aviazione e una marina – considerata la sproporzione di forze in gioco. Per ora, invece, l’Ucraina sembra avere addirittura la capacità di contrattaccare (e di riprendersi il controllo dell’aeroporto di Hostomel alle porte di Kiev, precedentemente caduto in mano russa, sebbene già si registrino corpi d’artiglieria nella periferia della capitale). Tuttavia, dato che il governo ucraino avrebbe fornito migliaia di fucili alla popolazione, prende forma la possibilità che il conflitto continui sotto forma di guerrilla – in coordinazione con le forze regolari, qualora ne rimangano a sufficienza.

I russi hanno provato ad attaccare con un attacco lampo per paralizzare il Paese. Si evince facilmente dalla storia recente che molto spesso le guerre lampo finiscono per essere pluriennali guerre devastanti. I prossimi giorni saranno fondamentali per capire le reali forze in gioco, ma ad ora ogni previsione sarebbe azzardata. Solo il tempo potrà scogliere la nebbia della guerra in cui siamo immersi.

Articolo di Michelangelo Cerracchio.

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SIR, Students for International Relations, è un'associazione studentesca attiva in Unimi. Opera nel campo della geopolitica e delle relazioni internazionali.

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