Del: 25 Febbraio 2022 Di: Beatrice Balbinot Commenti: 0
La crisi del giornalismo. Un'opinione

Sotto la definizione di SLAPP ricadono quelle cause legali intentate contro i giornalisti a seguito della legittima raccolta e condivisione di informazioni di interesse pubblico. Il compito etico del giornalista è delineato dalle carte deontologiche della professione, riassunte nell’ultima pubblicazione del 2016, secondo cui il giornalismo ha il compito di raccogliere dati per restituire all’opinione pubblica la «verità sostanziale dei fatti».

Il dramma inizia specialmente quando questa «verità dei fatti» si intreccia, e inevitabilmente spesso accade, con la verità dei fatti altrui, magari di grandi personalità politiche, aziende, importanti marchi nel mondo del business. Normalmente, specie quando hanno qualcosa da nascondere, questi attori emergenti della nostra quotidianità non apprezzano troppo che qualcuno ficchi il naso nelle loro faccende, in cerca di quella verità sostanziale dei fatti da consegnare al grande pubblico.

Molto spesso le cause vessatorie non costituiscono un reale problema legale per i giornalisti, in quanto si compongono prevalentemente di accuse piuttosto assurde e facilmente difendibili facendo appello ai doveri etici della professione dell’informatore. Rimane il fatto che il giornalista è chiamato a sostenere il peso economico e morale di un vero e proprio processo, che talvolta può protrarsi anche per diverso tempo.

Il risultato è un clima molto intimidatorio, in cui il giornalista si ritrova ad avere uno spazio di manovra sempre più angusto, ristretto ulteriormente dalle condizioni complesse del proprio lavoro.

Sì, perché le SLAPP, acronimo di Statregic Litigation Against Public Partecipation, non sono altro che un sintomo di un mondo dell’informazione che arranca sempre di più di fronte ai cambiamenti del lavoro e dei mezzi di comunicazione. Il giornalista ha perso quella legittima aurea di protettore della verità dei fatti di cui poteva godere qualche tempo fa.

Oggi la validità della stampa non fa che essere messa in dubbio. Basta scorrere velocemente la sezione commenti sotto i post Facebook dei principali quotidiani nazionali (Repubblica, Il Giornale, Corriere della Sera) per rendersi conto della generale diffidenza che gli utenti nutrono nei confronti di queste istituzioni dell’informazione. In un contesto informativo viziato da fake news e da un opinionismo fuori controllo che spesso entra nella narrazione dei fatti, dove tutti – professionisti e non – hanno la possibilità di dire la propria sulle questioni più scottanti della nostra attualità.

Veicolo indiscutibilmente potente di questa varietà di opinioni spesso caotica sono i social e più in generale le vastissime possibilità del web. Blog, pagine più o meno serie di informazione, Wikipedia sono solo alcuni degli spazi in cui chiunque sappia digitare su una tastiera può affermare la sua versione dei fatti vedendosi anche riconosciuta dall’utenza una certa autorità.

Il mondo della stampa sta vivendo oggi dirompenti contraddizioni interne, per cui i professionisti dell’informazione si vedono detrarre la fiducia del pubblico, mentre sul web spopolano fake news a cui molti danno corda. Inoltre, laddove i social hanno aumentato esponenzialmente la possibilità di condivisione di informazioni e opinioni non sempre ben supportate da fatti, i mezzi tradizionali di comunicazione si vedono schiacciati da cause legali vessatorie come le SLAPP, che inevitabilmente restringono i diritti e i doveri dei professionisti. A risentirne è innanzi tutto la possibilità di accedere a una corretta informazione.

È indubbio che in certa misura la diffidenza rispetto alla stampa non è immotivata.

I giornalisti di oggi sono sempre più chiaramente connotati da una precisa posizione politica, tanto che sempre più spesso nei vari talk-show di attualità vengono chiamati i direttori dei principali quotidiani nazionali per avvallare le istanze dell’una o dell’altra inclinazione ideologica. Parliamoci chiaro: non è di per sé un danno il fatto che le possibilità di condividere e raggiungere le informazioni sia molto aumentata nell’ultimo decennio, né tanto meno che vi sia una pluralità di visioni sull’attualità.

Storicamente la libertà d’espressione è stata il perno e il termometro della libertà stessa di uno Stato. La svolta autoritaria del fascismo in Italia può costituire un icastico esempio. Nel 1925 le leggi fascistissime hanno, tra le altre cose, eliminato le testate giornalistiche non affini al PNF e introdotto le veline, sottili fogli in cui venivano distribuite le informazioni sul Paese insieme all’interpretazione che di queste doveva essere data. Insomma, la prima vittima di un contesto di limitazione della libertà è proprio il pluralismo d’opinione.

Ma è possibile arrivare ad un eccesso di opinionismo? O meglio, è possibile che l’opinionismo arrivi a viziare elementi di cronaca che dovrebbero essere il più possibile neutri? È ovviamente legittimo che il giornalista abbia una sua opinione sui fatti che racconta ed è altrettanto ovvio quanto sia difficile annullare completamente il proprio pensiero nella trasmissione di informazioni. Anche il giornalista in fondo è umano.

Umano, certo, ma pur sempre un professionista. Azioni di agenda setting volutamente giostrate al fine di dare maggiore peso ad alcuni fatti piuttosto che ad altri, linguaggio giornalisticamente inappropriato, rappresentazione di fenomeni gonfiando o sgonfiando la rilevanza dei dati in modo da ritrarre la realtà assecondando le affinità con una precisa inclinazione ideologica sono delle strategie sempre più in uso nel giornalismo di oggi.

Un giornalismo asservito molto spesso ai tormentoni politici più che alla «realtà sostanziale dei fatti».

Un esempio di questo fenomeno perviene dalle notizie sulla migrazione, la cui narrazione sulla stampa nazionale ha causato una errata rappresentazione del fenomeno nella popolazione italiana. Uno studio di Ipsos Mori dimostra la profonda discrepanza che sussiste tra l’effettiva entità della questione migratoria in Italia e la percezione che gli italiani possiedono rispetto alla presenza di stranieri nel nostro Paese. Indubbiamente il lessico fortemente emergenziale («esercito di migranti», «invasione», «allarme migranti») con cui alcuni giornali nazionali descrivono il fenomeno non ha contribuito a generare un equilibrato e informato rapporto con la migrazione in Italia.

Ma se il giornalismo dei massimi livelli, delle più grandi testate nazionali, si lascia andare a questi meccanismi di vendita, a questi titoloni «acchiappa like» che attirano molto bene l’attenzione ma falliscono miseramente nel raccontare correttamente l’attualità, perché il pubblico dovrebbe ancora affidarsi a questi attori dell’informazione preferendoli ai social? La difficoltà del giornalismo e la grave crisi di fiducia di cui soffre non è forse altro che l’altra faccia della medaglia di una profonda crisi di affidabilità.

D’altra parte non c’è dubbio che il lavoro del giornalista non sia certo facilitato dall’emergere di nuove fonti di informazioni nella scena della comunicazione pubblica. Per sottostare alla velocità con cui le notizie possono circolare sul web e sui social il giornalista è spesso sottoposto ad orari di lavoro schiaccianti, chiamato a produrre articoli a un ritmo che non si addice all’accuratezza e al lavoro di verifica che sarebbero invece richiesti alla sua professione.

In queste condizioni non è strano che i giornalisti cadano in grossolani errori di valutazione, facendosi magari complici involontari di questa generale svalutazione della professione.

Se a questo si aggiunge che è ormai sempre più difficile vivere di giornalismo, con testate giornalistiche che propongono stipendi imbarazzanti o addirittura un pagamento in sola «esperienza» ai giovani giornalisti, non stupisce affatto come fenomeni come le SLAPP possano avere effetti tremendamente paralizzanti sulla professione.

Il quadro che emerge è estremamente complesso e assomiglia ad un cane che si morde la coda. Tanto più il giornalismo viene svalutato, tanto più lo si espone ai pericoli della professione, tanto più profondamente il servizio peggiora.

Beatrice Balbinot
Mi chiamo Beatrice, ma preferisco Bea. Amo scrivere, dire la mia, avere ragione e mangiare tanti macarons.

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