Del: 3 Febbraio 2022 Di: Alessandra Pogliani Commenti: 0
L'inverno demografico italiano, oltre le battaglie culturali

L’Italia è un paese di vecchi. A sentenziarlo, prima ancora di papa Francesco, sono gli istituti di statistica: basta dare un’occhiata alle rilevazioni dell’Istat per notare che l’età media della popolazione, ora quasi 46 anni, è in continua salita. Gli italiani, nel malcontento pontificio, adottano quadrupedi pelosi ma fanno sempre meno figli. Sarà che sono troppo cari? D’altronde, sfogliando i quotidiani scopriamo che esiste un 5% di donne benestanti che non ha figli per scelta e sta benone; tra loro, una giornalista a cui pare giusto puntare i riflettori su di sé, ottenendo manco a dirlo un tripudio di consensi. In tutto ciò, rimane poco chiara la natura del problema. Cos’è l’inverno demografico, un processo alla maternità mancata? Uno scontro di civiltà? Nel dubbio, sarà bene tornare ai numeri.  

Un primo indicatore della capacità riproduttiva di una popolazione è il tasso di fecondità totale: una stima sintetica del numero medio di figli per donna che in Italia, stando ai dati Istat del 2020, è di 1,24. Il computo dei nuovi nati, nel frattempo, cala ogni anno, e il tasso di incremento naturale ha ormai raggiunto il -6%. Cosa influenza questi valori? Un nuovo modo di vivere la propria femminilità, ma fino a un certo punto. Bisogna considerare fattori biologici, ambientali, sociali, politici, geopolitici. E poi, orrore, il valore economico della prole: se nelle società preindustriali un bambino era un paio di braccia da spedire a zappare i campi, oggi il suo mantenimento incide in negativo sul bilancio familiare. Si capisce perché, nel Paese del sicuro precariato, le nascite non vedano un’impennata da parecchio.

Un altro aspetto che salta fuori dalle previsioni Istat per i prossimi decenni è il progressivo invecchiamento della popolazione. La speranza di vita è destinata a salire, e allo stesso modo il rapporto tra il numero di persone over 65 e la fascia in età produttiva: vegliardi in aumento, carico sociale degli anziani pure. Cosa succederà quando la tarda età sarà in maggioranza? L’inverno demografico genera sul lungo periodo diseconomie pesanti: dilatarsi della domanda di cure mediche, crisi del welfare e così via. Si pensi alla Cina: la politica del figlio unico, abnorme opera di ingegneria sociale all’insegna della contrazione demografica, fu abbandonata nel 2015 proprio per via dell’invecchiamento gravante sul vuoto del sistema pensionistico. Si potrebbe pure sviare dalla lievitazione della spesa pubblica dando la precedenza a un settore piuttosto che a un altro, ma non sono decisioni da prendere con leggerezza.

Tutto ciò per dire che valutare i rischi dell’andamento demografico non significa ricamare un preambolo per la prossima sagra della famiglia tradizionale. Piuttosto, prendere consapevolezza che l’attuale trend potrebbe diventare insostenibile. E chiedersi: che fare?

Questa domanda è doverosa per il governo, perché popolazione e scelte politiche si influenzano a vicenda. Per agire sulla prima non ci vogliono campagne procreative o discorsi vaghi sulla fiducia nel futuro. Servono invece un mercato del lavoro che assorba la disoccupazione, la parificazione salariale, politiche abitative. E forse sarebbe utile discutere nuove proposte, anziché scovare in ogni caso un pretesto rivendicativo. Le donne benestanti che non hanno figli per scelta sono una percentuale piccola nel nostro inverno demografico, anche concedendo ai sondaggi un margine di errore. Un aspetto su tanti dell’attuale transizione, una spiegazione ma non l’unica. Nessun attentato alla parità di genere e alle scelte individuali, nessun manifesto per una novella industria di balilla combattenti. Semmai, la natalità decrescente è un allarme che impone un ripensamento delle politiche. Il fatto poi che una donna senza prole sia giudicata incompleta infastidisce parecchio – ma questo è un discorso che interseca la faccenda demografica, non il suo punto focale: piazzarlo al centro è un’interpretazione unilaterale e distorsiva.

Alla complessità della geografia umana rende giustizia solo un approccio multidisciplinare che costringa a smorzare i toni, soppesare fattori diversi ma interdipendenti, assumersi responsabilità nella penombra delle congetture guardando al pianeta di domani. Porre l’accento sui meccanismi di scelta potrebbe anche essere la chiave per un’altra questione: il sovraffollamento del globo. Al 2022 siamo oltre 8 miliardi, e le stime su quanti saremo tra cent’anni si accompagnano a quelle sulla capienza del pianeta. C’è chi parla di una molla pronta a scaricare la sua forza devastatrice in termini di degrado sociale e ambientale. Oppure chi, con un certo ottimismo, intravede nel progresso tecnico la scorciatoia per un’umanità in espansione. Forse, suggeriscono altri studiosi, una terza via che porti fuori dal classico dilemma malthusiano c’è, e sta nella flessibilità: leggere i numeri di volta in volta ed elaborare strategie, compromessi tra forze di costrizione e risposte adattive, usando le previsioni a lungo termine come guida ai correttivi del presente. Abituarsi all’incertezza.  

Certo sarebbe più semplice se ideologie e costumi facessero da unico motore propulsivo alla popolazione, e che dietro alla denatalità odierna ci stesse la fine della prolificità come irrinunciabile tratto identitario della donna – non l’affitto da pagare, i contratti a tempo determinato, un paese di vecchi che però non è un paese per vecchi. Trasformare il grattacapo dell’inverno demografico in un dibattito sulla maternità è riduttivo tanto quanto cercare solo spiegazioni economiche. Forse anche più pericoloso. Perché siamo tutti d’accordo sul fatto che sia meglio non fare figli che farli controvoglia, abbandonarli alla tivù o, peggio ancora, considerarli un’appendice dell’ego su cui proiettare ambizioni insoddisfatte. I dati numerici, invece, fanno presto a sparire dalla memoria. Ricorderemo l’articolista di La Stampa che vive serena anche senza riprodursi e ce lo scrive in prima persona a mo’ di epistola, non il possibile collasso che continua a penzolare sopra le nostre teste di figli unici. Le statistiche dell’Istat sono passate quasi in sordina, tra le condanne di papa Francesco alla zoofilia morbosa e la posta del cuore su patemi e tabù dell’essere genitori.

Un gradino sotto alle encicliche e alle battaglie culturali scorre un mondo meno schematico e più prosastico di come ci viene raccontato: un groviglio di calcoli, constatazioni fattuali, ingranaggi da muovere e tenere insieme per garantire il funzionamento della società. Bisognerebbe discuterne, ogni tanto, e puntare la torcia giù dalle torri d’avorio della nostra quotidianità individualista e data per scontata, in cui ogni parola è affermazione di sé ansiosa di riconoscimento. Valutare in modo costruttivo un problema che ci coinvolge tutti, senza giocare a rimbalzarsi presunte colpe e mancanze. E questo non per chissà quale inclinazione al materialismo grezzo – solo per tenere a mente che, senza terra sotto ai piedi, non si va molto lontano.

Alessandra Pogliani
Ostile al disordine e col cruccio di venire a capo dell’anarchia del mondo, per contrappasso nella vita studio storia.

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