Si è da poco conclusa la seconda stagione di Euphoria, serie-fenomeno di HBO debuttata nel 2019.
Grazie al suo stile cinematografico e alla colonna sonora curatissima, la serie aveva conquistato il grande pubblico nonostante i temi difficili da digerire. La protagonista è infatti Rue, sedicenne tossicodipendente, e tutti i personaggi che le stanno attorno sono problematici: ci sono partner ossessivi e abusivi, genitori assenti, ragazzi che soffrono di disturbi alimentari o mentali; problemi reali e importanti, ma che, come tutto in Euphoria, vengono portati all’estremo, in un concentrato di episodi spesso irrealistici e sempre scioccanti.
Eppure, è impossibile non sentirsi affascinati da ciò che succede sullo schermo, e soprattutto dall’aspetto magnetico di questo mondo disfunzionale.
Un articolo del New Yorker definisce la serie come una fantasia scenografica di un sobborgo oscuro, dove cose molto brutte appaiono molto belle.
La forza di Euphoria sta nell’aver fatto di sé un fenomeno culturale. Nei due mesi in cui HBO faceva uscire gli episodi della seconda stagione, sui social media l’engagement è stato incredibile: su TikTok i video che prendono in giro l’assurdità dei comportamenti e dell’abbigliamento dei personaggi abbondano; il profilo Instagram @euphoriastweets, che pubblica i meme più popolari postati dagli utenti di Twitter, conta più di 20mila follower.
Ma la popolarità non si ferma a internet: l’estetica così riconoscibile della serie è diventata essa stessa un brand. Si parla ironicamente di Euphoria effect o euphoria-fication di negozi in cui linee di moda presentano lo stesso stile delle protagoniste, mentre Vogue ha pubblicato un articolo sul suo impatto nel settore dei cosmetici: glitter e trucchi elaborati agli occhi sono esplosi, e i makeup artist parlano dell’Euphoria makeup.
L’esperienza visiva è tanto luminosa e accattivante da far passare in secondo piano ciò che non funziona nella serie.
La seconda stagione in particolare ha visto l’aprirsi di tantissime linee narrative diverse che non si sono concluse e che non hanno permesso di approfondire l’aspetto psicologico in modo adeguato, come invece era successo nella prima parte, in cui ogni episodio partiva dalla backstory di uno dei personaggi.
Si è passati quindi a una stagione apparentemente senza una struttura o una trama precisa. È poi sempre più improbabile pensare che i protagonisti, interpretati da attori e modelli di 25 e passa anni, siano studenti del liceo.
Le critiche al regista e sceneggiatore Sam Levinson sono moltissime, per via della sessualizzazione (gratuita) di teenager, per la mitizzazione delle droghe, ma anche per il modo in cui gestisce il set (alcuni personaggi sono stati quasi cancellati per litigi con il direttore).
Euphoria si inserisce nel filone delle serie tv dedicate agli “adolescenti problematici”, dominato in precedenza da serie come Skins, a cui è stata paragonata da molti critici. Ma mentre Skins era più legato al grigiore quotidiano – o perlomeno il mondo scolastico emergeva a tratti come una realtà fastidiosa – Euphoria si lancia invece spesso in narrazioni da film d’azione (per esempio negli incontri con gli innumerevoli spacciatori di zona), o si concentra troppo sul creare un impatto emotivo forte, a scapito della trama e dei dialoghi.
La realtà è filtrata qui da un’atmosfera teatrale che angoscia lo spettatore e allo stesso tempo lo cattura proprio per il suo essere eccessivo; così tanto che Zendaya, attrice protagonista (e vincitrice di un Emmy per il ruolo di Rue) ha pubblicato un post su Instagram avvertendo che la stagione sarebbe stata difficile e “triggering”.
Euphoria è difficile da inquadrare: fa molti passi avanti – nella cinematografia, nel portare sullo schermo argomenti scomodi – ma ne fa altrettanti indietro.
Non si capisce, a volte, se a muovere il tutto ci sia arte o caotica esagerazione.
Comunque sia, Euphoria riesce a essere un prodotto che funziona e intrattiene, anche se a volte è più piacevole parlarne, e criticarlo, che guardarlo.