La chiamata alle armi declinata al femminile non è stata un successo, come dimostrato dall’ultima crisi. Il ministero degli Esteri ucraino parla del 15% di donne soldato.
Se è pur vero che molte hanno deciso di imbracciare fucili ed unirsi alle file nazionaliste, il divieto di espatrio per cittadini tra i 18 e i 60 anni è esteso ai soli uomini. Non ci sono proteste o dissensi aperti: si ritiene semplicemente che in questa situazione catastrofica l’impianto tradizionalista sia vincente.
La donna custode del focolare trascina i propri figli oltre il confine maledetto, o perlomeno, ci prova. Gli uomini restano sulle banchine delle stazioni, lacrimanti, con il cuore pesante per l’incertezza e lo strazio dell’abbandono. Famiglie dislocate, necessariamente. Così va la guerra.
Così, le degenerazioni repentine ed inaspettate, ci dimostrano quanto siamo noiosi, ci rifugiamo nel confortevole passato, nell’ormai tramontata idea della donna debole, troppo delicata per la guerra. Ci vuole certamente coraggio ad imbracciare un fucile, ce ne vuole altrettanto per guidare un’auto in una pioggia di bombe, con i bambini in auto, e guardare fuori dal finestrino. Ci vuole coraggio anche per guidare lungo 1800 km su una vecchia utilitaria per trovare salvezza, come raccontano Irina e Olena, dopo aver attraversato l’intera Europa, su quell’auto scassata, con un bambino piccolo e il suo peluche.
Questo è un atto di guerra, un fatto compiuto da un soldato differente da quelli che siamo abituati ad osservare: non ha divise, non ha armi proprie, non ha comandi se non quelli dettati dall’istinto di sopravvivenza e dall’amore genitoriale.
Non attacca l’avversario, tenta di sopravvivergli. Svolge una funzione famigliare che in fondo è tutta simile a quella pubblica svolta da un soldato.
Abbiamo visto foto di donne e bambini che costruiscono bombe. È straziante ed ingiusto. Eppure, così va la guerra. Ma abbiamo visto anche certi uomini farlo. Si conclude, allora, che nella guerra non c’è sesso che tenga, si deve coadiuvare sempre, ci si coagula in una forma umana indistinta solo per la sopravvivenza. Ci si deve sporcare le mani.
E dunque, se esiste questa interscambiabilità, questa vera forma d’uguaglianza nel cercare di sopravvivere, perché non è traslocabile nella forma militare?
Il problema è che siamo evoluti durante la pace, abbiamo incluso – per dirla a quella fastidiosa maniera sessista – il gentil sesso tra le file dell’esercito… durante la pace. E quando viene la guerra ci dimentichiamo che il 49,5% degli abitanti umani di questa Terra è donna. Come tale, si conviene, ha il dovere e il diritto di partecipare a quell’umana – ed abominevole – cosa che è la guerra. Anche a livello istituzionale. Anche quando si impone un obbligo di restare in una terra martoriata come quella ucraina.
Qualcuno, però, dovrà pur salvare bambini, anziani, impossibilitati al combattere. E perché proprio una donna? Perché non lasciare che sia la famiglia – o chi per essa – a decidere inter se chi condannare all’orrore? E tutta quella forza mancata? E tutte quelle vite di uomini incapaci – perché sì, esistono anche uomini incapaci a combattere – salvate? E tutte quelle donne pronte, forti, tante volte più di quegli stessi uomini? Rimangono a casa, imbracciano il mantice, prima che il fuoco si spenga.
In queste situazioni compulsive il divieto d’attraversare un confine e la possibilità d’essere chiamati a combattere, si fondano su due requisiti: il coraggio e l’amor di patria. E possono esserci ma possono anche non appartenere all’individuo. Certo è che tali assetti mentali non hanno alcuna relazione con il sesso biologico. Appartengo indiscriminatamente.
Scriviamo sui muri delle università che anche dirsi che “questo è un lavoro da uomini” è sessista ma quando si fa la guerra, ancora una volta, ci dimentichiamo di queste forti istanze e torniamo al focolare, dimostrando che la strada per il radicamento del principio della parità dei sessi è ancora ardua, lunga ed insidiosa, minacciati come siamo dalla paura.