Può esistere un legame tra una molotov e un dipinto cinquecentesco? O forse tra un soldato e un amorino classico? Per quanto all’apparenza sembri paradossale esiste un sottile legame tra questi concetti così differenti perché, in definitiva, esiste una profonda connessione tra la guerra e l’arte, tra la cultura e l’istinto alla distruzione. E la guerra russo-ucraina, in questo senso, ne è la prova, ne ha dimostrato la concreta possibilità.
Come scriveva il filosofo Alexander Moseley in A Philosophy of War, infatti, la guerra è un’attività che si estende in verticale e in orizzontale rispetto la vita umana, sia intesa dal punto di vista individuale quanto sociale e culturale. E proprio la natura pervasiva e tentacolare della guerra è la ragione che spinge Moseley a definirla “a cultural phenomenon”. Perché, tragicamente, la guerra è diventata nella modernità sempre più un’attività culturale in tutti i suoi aspetti e, per questa ragione, essa va analizzata secondo la molteplicità di prospettive che implica.
La comprensione della cultura, in quanto parte integrante delle attività sociali di un popolo, conduce infatti a riconsiderare la guerra non soltanto come un’attività di stati ma come una particolare modalità di vita.
Così, mentre prosegue la marcia russa sull’Ucraina e mentre si attende un ulteriore round di negoziati tra Kiev e Mosca, alle strazianti immagini delle strade si aggiungono quelle dei bombardamenti sul patrimonio culturale ucraino e con esse la spettro di una nuova epurazione culturale.
Dopo la notte del 27 febbraio 2022, che ha visto la distruzione del memoriale dell’Olocausto di Babyn Yar e del Museo di Storia Locale di Ivankiv causando la perdita di oltre venti opere della pittrice naïf Maria Prymachenko, i bombardamenti russi hanno colpito l’Università e l’Accademia di Cultura di Kharkiv e il Yermilov Centre, museo d’arte contemporanea tra i più importanti della regione.
La reazione non si fa attendere. Il mondo artistico e culturale ucraino cerca subito il sostegno internazionale per evacuare opere d’arte, archivi, libri, oggetti di design e arti applicate da tutto il territorio ucraino e trasferirli in uno spazio sicuro ubicato a Ivano-Frankivsk.
Nel frattempo anche la risposta internazionale arriva velocemente. L’UNESCO proprio in questi giorni ha infatti iniziato a discutere la situazione e prevede di tenere una riunione il 15 marzo per esaminare l’impatto dei danni subiti finora in tutto il Paese. Anche l’ICOM ha condannato la violazione dell’integrità territoriale e della sovranità dell’Ucraina da parte delle forze militari russe, dichiarandosi preoccupato per i rischi e le minacce al patrimonio culturale ucraino.
In questo scenario il punto che stringe eticamente gli sforzi internazionali rimane la Convenzione dell’UNESCO del 1970 riguardante le misure da adottare per interdire l’illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà di beni culturali al fine di salvaguardare l’integrità culturale dei popoli.
E se già a questo punto sembrerebbe essere stato raggiunto il limite dalla violenza umana, non è così.
La guerra, la violenza culturale non colpisce infatti esclusivamente il territorio ucraino. ma l’Europa intera e con essa, di riflesso, anche l’Italia. Mosca rivuole le sue opere, e le rivuole subito. I prestiti dell’Ermitage di San Pietroburgo, rilasciati in passato a due dei principali musei di Milano, Palazzo Reale e le Gallerie d’Italia, devono rientrare entro la fine di marzo, e così anche alla Fondazione Fendi di Roma. Così è stato stabilito direttamente da Mosca. “In base alla decisione del Ministero russo della Cultura tutti i prestiti in essere devono essere restituiti dall’estero alla Russia” – così ha scritto Mikhail Borisovich Piotrovsky, Direttore del museo di San Pietroburgo, al direttore di Palazzo Reale, Domenico Piraina.
La scelta dell’Ermitage è arrivata lunedì 7 marzo – dopo la decisione di Putin di inserire l’Italia nell’elenco dei “Paesi ostili” – rivolta alle due istituzioni milanesi: Palazzo Reale che ospita all’interno della mostra Tiziano il dipinto La Giovane donna con cappello piumato; e le Gallerie d’Italia che hanno realizzato l’esposizione dedicata al Grand Tour in partnership con l’Ermitage, che ha prestato diverse opere come Amorino alato di Canova. La richiesta di restituzione è arrivata anche alla Fondazione Fendi, a cui è stata chiesta la Giovane donna di Picasso. Una decisione che ha tutto il fascino e il potere di un’imposizione, senza possibilità di scelta; anche se, che cosa accadrà ora alle opere non è dato saperlo, non essendo ancora giunta comunicazione ufficiale in merito da parte del Ministero della Cultura italiano.
Quello che è certo è che la cultura rimane formalmente coinvolta nel conflitto di violenza della guerra. Una violenza che non si limita alla distruzione materiale dell’oggetto d’arte ma colpisce il valore che risiede, evidentemente, in qualcosa di invisibile: la capacità dell’arte di comprendere la realtà sostanziale di un’epoca e di riuscire a renderla nella sua eterna validità.
L’obiettivo è chiaro. Distruggere la vita, sgretolare la speranza, epurando tutto ciò che queste rappresenta, in questo caso racchiuse nello sguardo di una giovane con un cappellino piumato e nelle candide ali di un amorino. Loro, che con la guerra non hanno niente a che fare, eppure ne sono vittime, ne diventano dolorosamente parte, perché tragica testimonianza di una follia umana senza confini.