
EliSIR è la rubrica di geopolitica e relazioni internazionali curata su Vulcano da SIR – Students for International Relations, associazione studentesca della Statale.
Sessanta giorni di guerra. Quello che secondo alcune indiscrezioni del Cremlino, amplificate dalla narrazione occidentale, doveva essere un Blitzkrieg – una guerra lampo – si sta rivelando tutt’altro che un lampo. Tanti gli errori commessi dai russi, ammirevole la tenuta patriottica degli ucraini, logorante il sostegno militare dell’occidente. Una convergenza di fattori che ha avuto come risultato il proseguimento delle ostilità, la trasformazione del conflitto in una guerra di logoramento, soprattutto nel nord-est del Paese, e la perdita di inerzia e di ogni qualsiasi forma di sorpresa nell’offensiva russa. Da qui nasce la necessità dei comandi militari russi di riorganizzare le proprie truppe per sfondare con forza decisiva nel sud-est dell’Ucraina, obiettivo primario e indiscutibile dell’offensiva russa.

Rimane da stabilire se questa seconda offensiva sia un ripiegamento dopo il fallimento della presa di Kiev, o se puntare alla capitale fosse soltanto un diversivo per tenere impegnate il grosso delle forze ucraine prima di sferrare l’attacco decisivo nel bacino del Donec. Troppe cose in questa guerra sembrano ciò che non sono. Per citare il filosofo contemporaneo Nathan Burke: «Every way of seeing is also a way of not seeing». Cioè, anche credendo che quello che vediamo sia un riflesso della realtà, in verità questo è già una selezione della realtà e come tale diventa una (parziale) distorsione. D’altronde, scomodando anche lo stratega e militare prussiano Von Clausewitz, ogni guerra è avvolta in una nebbia che offusca i connotati stessi della guerra e le reali intenzioni dei belligeranti fino alla cessazione delle ostilità.
Ma andando con ordine si può cercare di sfoltire questa nebbia e contestualizzando l’offensiva con ciò che (non) è stato, si può sperare di comprendere ciò che realisticamente potrebbe essere.
A ben vedere, poco del preludio al conflitto odora di Blitzkrieg. Gli ingredienti principali di una guerra lampo sono l’effetto sorpresa, la rapidità dell’offensiva e la massima concentrazione delle proprie forze mentre il potere aereo si assicura il controllo dei cieli per minimizzare le capacità difensive del nemico. I russi non hanno fatto niente tutto ciò. Le truppe sono state ammassate al confine occidentale della Russia per mesi alla luce del sole. La rapidità dell’offensiva è andata scemando con il tempo e con la penetrazione in profondità nel territorio ucraino, complice un terreno impervio e ottimale per le imboscate della resistenza – soprattutto nel nord.
L’attacco iniziale si è sviluppato lungo tre direttrici, disperdendo le forze lungo tre assi, allungando e lasciando spesso sguarnite le linee di comunicazione – nemmeno criptate – , soggette a numerose imboscate della resistenza. Senza contare che gli aggressori hanno usato con il contagocce il potere aereo, limitandosi a colpire con attacchi missilistici ed elicotteristici i principali siti militari e logistici ucraini, e senza riuscire – per settimane – ad avere il controllo dei cieli.
In poche parole, i russi si sono privati degli intrinsechi vantaggi dell’attacco, ovvero quella finestra in cui l’effetto sorpresa coglie il nemico impreparato, dopo la quale sarà la difesa e la conoscenza del territorio a farla da padrona. Proprio per questo motivo, in questa finestra bisognerebbe utilizzare il massimo della propria forza per paralizzare l’avversario, interrompendone le comunicazioni o isolandone la testa politica. Perché, in fin dei conti, la guerra non è violenza indiscriminata ma violenza volta a piegare la volontà politica del nemico.
Anche quando sembrava che i russi potessero avere la possibilità di sferrare l’attacco decisivo su Kiev non hanno seguito questa strada, agendo tutt’altro che secondo manuale. Piuttosto, anche durante lo stallo in tutte le direttrici d’entrata – sebbene le linee di contatto siano rimaste spesso fluide e contestate, ad eccezione del sud – i russi hanno continuato a colpire i principali siti militari ucraini: centri di addestramento, di stoccaggio di armi, mezzi e carburante per rendere vita difficile ai rifornimenti e alla logistica ucraini, così come hanno fatto gli ucraini stessi, amplificando i preesistenti problemi logistici russi.
Quindi, i russi non si sono focalizzati sulla decapitazione della testa politica dell’Ucraina, quanto sul tentativo di fiaccarne e indebolirne la resistenza, sia materialmente che psicologicamente.
L’uso parsimonioso della forza bruta può sembrare antitetico alla brutale retorica moscovita. La minaccia della recrudescenza del conflitto è stata promossa più volte dall’aggressore senza un effettivo riscontro. L’ammassamento di oltre 140 mila effettivi prima del conflitto, il mix di attacchi missilistici e cibernetici, la minaccia di “conseguenze mai viste prima nella storia” per chi dovesse intromettersi, la rapida messa in stato d’allerta delle forze di deterrenza nucleari e il lancio di successo del missile intercontinentale Sarmat – studiato per testate nucleari – sono solo alcuni esempi che indicano che la guerra, prima ancora della violenza fisica, è violenza psicologica volta a piegare il morale e la volontà di combattere del nemico di fronte alla propria strapotenza e tracotanza militare. Indirizzata tanto agli ucraini quanto – e soprattutto – agli europei.
È vero che i fatti di Bucha e di Mariupol escono da questo schema. Ma i primi sono figli dell’irrazionalità, della rabbia e della demoralizzazione delle truppe russe in loco. Mentre i secondi derivano dal fatto che Mariupol è, agli occhi dei russi, una fortezza neonazista sotto le spoglie del battaglione d’Azov, “legittimando” con ciò l’utilizzo massiccio di cacciabombardieri nelle zone non strategiche delle città e il presunto utilizzo di armi chimiche nella zona industriale. Nello specifico, l’utilizzo di quest’ultime sarebbe una extrema ratio dovuta alla complessità delle operazioni causata dalla presenza di numerosi tunnel sotterranei di epoca sovietica utilizzati dalla resistenza. Ed è vero anche che i russi hanno in parte mirato alle periferie delle città principali del nord con bombardamenti, missili e artiglieria per spaventare la popolazione.
Ma questi avvenimenti non cambiano la natura del conflitto in questione e, piuttosto, sono degli esempi di come un certo grado di violenza contro i civili faccia parte di una più largo schema di impiego della violenza psicologica, volta a far desistere la volontà di resistenza del nemico senza infliggere dei costi umani irreparabilmente alti. Soprattutto perché questa è anche una guerra fratricida.
Se l’offensiva nel sud ha visto le maggiori conquiste territoriali con grande enfasi sulle città portuali, nel nord i russi si sono espansi a macchia d’olio attorno alle città e la linea di contatto si è presto trasformata in una guerra di logoramento con delle retrovie estremamente esposte, causando le perdite più ingenti per gli aggressori. Questo, insieme allo scorrere inesorabile del tempo, ha portato alla necessità di sganciarsi dalla capitale e dalla linea di contatto sanguinosa nel nord, riorganizzare le proprie forze e focalizzarsi sull’obiettivo imprescindibile di questa guerra: il Donbass.
Raggiunto l’obiettivo di creare un ponte terrestre con adeguata profondità strategica dalla Crimea alle repubbliche di Luhans’k e Doneck’ e fallito l’apparente (?) tentativo di decapitare la capitale, è tempo di chiudere i conti nel Donbass, cercando di guadagnare quanto più territorio possibile da “regalare” alle repubbliche separatiste – leggi: annettere – prima di poter intavolare dei negoziati. Oltre al fatto che l’intero confine delle repubbliche separatiste filorusse è stato minato dagli ucraini, rendendo estremamente lento se non impossibile qualsiasi sfondamento filorusso, in quest’area si concentrano il meglio delle forze speciali ucraine e la maggioranza degli avanzati sistemi d’arma forniti dagli occidentali alla resistenza.
È altamente probabile, quindi, che qualora Mosca volesse ottenere risultati in tempi brevi dovrebbe inevitabilmente puntare a una recrudescenza del conflitto.
Questo potrebbe farlo sovraccaricando i sistemi difensivi della resistenza nell’est del paese prima di chiudere migliaia di soldati ucraini in una sacca. Affinché ciò accada c’è bisogno che le truppe sganciatesi da Kiev raggiungano Kharkiv e soprattutto che venga archiviata la pratica Mariupol, magari creando un cordone di sicurezza attorno alla zona industriale, per rendere quanto sicuro possibile il dispiegamento di forze anche da sud. L’offensiva a tenaglia prevedrebbe di sfondare le difese ucraine a sud del fiume Donec, che per ora delimita il fronte orientale, e a nord di Zaporižžja, regione che per ora delimita il fronte meridionale. È da notare, infine, che l’abbondanza di fiumi in questa zona costringe i russi a movimenti obbligati e gli ucraini ad una difesa estremamente mobile.

Il tempo stringe e la Parata della vittoria del prossimo 9 maggio in Piazza Rossa a Mosca potrebbe spingere i russi ad aumentare la loro forza distruttiva, affinché la popolazione russa possa celebrare passato e presente nello stesso momento. Sebbene l’inizio di questa seconda offensiva sia stata annunciata palesemente dallo stesso ministro degli esteri russo già mercoledì, in realtà non si registrano ancora combattimenti degni dell’entità di questa offensiva. Ennesima dimostrazione della discrasia di ciò che la guerra è e di ciò si vuole farla apparire. La guerra crea sempre la sua realtà, una realtà diversa da ogni calcolo e da ogni intenzione.
Articolo di Michelangelo Cerracchio.