24 febbraio 2022, una data che passerà alla storia per motivi che ormai tutti conosciamo. Nello stesso giorno, però, un altro territorio dell’Europa orientale è protagonista di un cambiamento testimone di delicati equilibri di potere: la Bosnia-Erzegovina, crogiuolo di etnie e nazionalismi che, come 30 anni fa, stremano il Paese perseguitandolo con il fantasma di nuove guerre indipendentiste. Il 24 febbraio la decisione di raddoppiare il contingente dell’operazione EUFOR Althea, attiva nel territorio dal 2004 in sostituzione della precedente missione NATO, viene dunque presentata come misura precauzionale a fronte del deterioramento della sicurezza a livello internazionale.
Nel complesso universo politico della Bosnia post-bellica, figlia degli accordi di Dayton, la presenza di autorità straniere, non soltanto a livello militare, è infatti prevista come garanzia di stabilità e sicurezza, con il compito di supervisionare all’applicazione delle condizioni di pace e favorire il processo di state-building, mantenendo il Paese, di fatto, in una specie di zona grigia tra dipendenza e sovranità.
Al vertice degli organi di controllo della comunità internazionale si trova la figura dell’Alto rappresentante.
Questo riferisce direttamente al Consiglio per l’attuazione della Pace (PIC), composto dai delegati di 55 paesi e organizzazioni internazionali, tra cui la CE, l’FMI, l’OSCE, al fine di monitorare l’implementazione civile degli accordi. Nel 1997, in una conferenza tenutasi a Bonn, il Consiglio ha ampliato la sfera d’azione dell’Alto rappresentante, mettendolo nella posizione di rimuovere funzionari pubblici qualora questi violassero gli impegni presi a Dayton, ed imporre decisioni vincolanti qualora giudicasse l’amministrazione locale incapace o restia a farlo, senza possibilità di appello.
Con l’esecutivo e il legislativo in mano all’Alto rappresentante, le istituzioni bosniache vengono lasciate ai margini, mentre le condizioni imposte da Dayton vengono progressivamente subordinate ai requisiti per un’eventuale adesione all’Unione Europa. Si verifica quindi un trasferimento di poteri dal PIC all’UE sancito dalla fusione del rappresentante speciale dell’Unione Europea e l’Alto rappresentante, sulla scia del criticismo del Consiglio d’Europa verso quest’ultima figura: così nel 2008 il PIC pose le basi per la soppressione dell’ufficio, elaborando una lista di obiettivi che le autorità bosniache avrebbero dovuto soddisfare prima del suo scioglimento.
Di recente, con riferimento ai Balcani occidentali, è stato coniato il termine ‘stabilocrazie’, ovvero un tipo di governo legittimato da una stabilità apparente ma la cui democratizzazione è ostacolata dalle tendenze autocratiche di leader che fanno affidamento a reti clientelari e informali.
Oggi la Bosnia vive una delle sue crisi peggiori dagli anni ‘90.
La causa scatenante, emblema del problema di una sovranità condivisa, risale proprio a una decisione emanata dall’Alto rappresentante nel luglio 2021. Dopo aver ricoperto la carica per undici anni, l’austriaco Valentin Izko, che non aveva mai esercitato i cosiddetti ‘poteri di Bonn’ durante il suo mandato, ha imposto un emendamento al codice penale bosniaco, introducendo il reato di negazionismo del genocidio di Srebrenica, nel quale 8000 musulmani vennero uccisi dalle forze militari serbo-bosniache. All’indomani della guerra, con il Paese diviso secondo linee etniche in due Entità (la Repubblica Serba ‘RS’ e la Federazione croato musulmana) il massacro di Srebrenica è stato politicizzato, sia da una parte, a favore della delegittimazione della Repubblica serba, sia dall’altra, diventando un punto centrale nell’agenda separatista di Milorad Dodik, presidente della RS dal 2010 al 2018, nonché attuale membro della presidenza tripartita della Bosnia.
Per anni Dodik ha minimizzato i crimini commessi dall’esercito serbo durante la guerra, definendo il genocidio ‘il più grande inganno del ventesimo secolo’, un ‘falso mito’ creato dai bosniaci musulmani, alimentando in questo modo sentimenti nazionalisti in una regione già etnicamente omogenea e dunque pericolosamente ricettiva di questo tipo di retorica. Una propaganda che si è spinta oltre la negazione e verso il revisionismo, come testimoniano i rapporti delle varie “commissioni per la verità” istituite per volere di Dodik: secondo un report pubblicato proprio lo scorso luglio, ciò che accadde a Srebrenica fu senza dubbio un crimine di guerra ma non fu compiuto con altra intenzione se non quella di eliminare una minaccia militare.
In questo clima politico, l’emendamento approvato da Izko rappresenta il pretesto perfetto per attuare i piani secessionisti tanto auspicati da Dodik.
La classe politica serbo-bosniaca annuncia dunque il boicottaggio delle istituzioni statali, condannando allo stallo il governo centrale che necessita dell’approvazione di tutti e tre i popoli costituenti. Il 10 dicembre l’Assemblea nazionale della RS ha votato a favore del trasferimento a livello dell’Entità di alcune competenze esclusive del governo centrale: un progetto che era già iniziato a ottobre, quando Dodik aveva annunciato la creazione di un Agenzia del farmaco indipendente, e mira adesso a riappropriarsi dell’autonomia in materia giudiziaria, difensiva e fiscale mediante la formazione di istituzioni parallele per la Repubblica serba, in chiara violazione degli accordi di pace.
A complicare il quadro si aggiungono le imminenti elezioni generali, che si terranno il 2 ottobre 2022 nonostante nessun progresso sia stato compiuto verso una modifica dell’attuale legge elettorale, da anni oggetto di critiche poiché impedirebbe l’accesso ad alcune cariche istituzionali agli ‘Altri’ – così la dicitura nella Costituzione – ovvero coloro che non appartengono o non si identificano nei tre ‘popoli costitutivi’, cioè i croati, i musulmani e i serbi.
Nonostante le sanzioni varate dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti e dal Regno Unito contro Dodik con accuse di corruttela e minaccia alla stabilità della Bosnia Erzegovina, il leader serbo non pare voler ritornare sui suoi passi: piuttosto, l’introduzione delle sanzioni spingerebbe Dodik ad afferrare la mano già tesa di Russia e Cina. E se l’Unione europea non si è ancora espressa nella medesima direzione, il merito è di Viktor Orban, il quale non solo si è opposto alla richiesta avanzata dalla Germania di imporre sanzioni a Milorad Dodik, ma ha anche annunciato un pacchetto di aiuti economici destinato alla Repubblica serba.
Con l’invasione russa in Ucraina, in Bosnia-Erzegovina le vulnerabilità geopolitiche occidentali, la crisi interna, politica, economica e demografica, l’influenza del Cremlino come ulteriore fattore destabilizzante, rendono il Paese una zona a rischio, come già dichiarato dal Segretario NATO Jens Stoltenberg.