Del: 25 Maggio 2022 Di: Giulia Scolari Commenti: 2
Cuori selvaggi. Il Salone del Libro torna a Torino

Il Salone del libro di Torino si tiene una volta all’anno. La 34ma edizione, del 2022, si è svolta nella settimana che va dal 19 al 23 maggio a Torino. La capitale mondiale della cultura, alla base della civiltà del libro, era già stata protagonista dell’ultima edizione dell’Eurovision e non dà alcun segno di volersi fermare. Noi di Vulcano siamo stati alla giornata inaugurale e vi raccontiamo quello che ne abbiamo tratto. 

Il Salone, come ogni evento culturale, è un atto politico: in un mondo dove l’importanza delle parole è sempre più sottovalutata, a discapito dell’immagine, la cultura ci ricorda che è dal logos che veniamo. La lettera che il presidente della Repubblica ha inviato per inaugurare l’evento sottolinea queste tematiche. Mattarella ricorda il centenario dalla nascita di Pasolini, di cui il presidente riprende l’invito a «leggere, leggere, leggere». Si sottolinea come l’evento sia anche un’opportunità per i lavoratori del settore, colpiti duramente dalla pandemia, di farsi conoscere (se indipendenti, come molte delle oltre 140 case editrici presenti) e rialzarsi. 

Come annunciato fin dall’inaugurazione, questa edizione è la prima dal cosiddetto ritorno alla normalità, eppure di normale non ha nulla.

Si mira a renderla la più partecipata, vede un numero di giovani che continua a crescere di anno in anno e a loro sempre più spesso si rivolge. «In ogni epoca in tutti i luoghi alcuni uomini e donne hanno saputo guidare tramite le parole […] hanno risvegliato e veicolato il sentire comune intorno a un’idea e in questi giorni avremo occasione di sentirne tante»: così Giulio Biino ricorda che ancora oggi sono le parole a cambiare le cose. Così si creano sogni, utopie, si iniziano guerre e si crea la pace: la pace è un topos che il Salone si impone di mantenere, in un periodo in cui è agognata.

Laddove falliscono i cosiddetti “primi uomini”, alle persone comuni non restano che le piccole grandi azioni: ecco quello che può fare un libro. «Perdiamoci nel magico mondo delle parole, come i nomadi del deserto, cuori selvaggi, si perdono ad ascoltare parole intorno al fuoco.» L’auspicio del Salone è che ogni cuore selvaggio che entri porti un amico: più cuori selvaggi saremo, più si sarà dato senso al salone. 

Il punto di vista più emblematico è quello condiviso telegraficamente da Nicola Lagioia, il direttore: il Salone di oggi si concentra sulla “Molteplicità”. La molteplicità che viviamo ogni giorno nelle società complesse e che si riversa naturalmente in ciò che leggiamo – il romanzo moderno vive all’insegna della polifonia, dei diversi punti di vista. È forse un caso – si chiede Lagioia, con la sensibilità di chi ha scritto uno dei libri più difficili da digerire degli ultimi anni – che questo sia anche il centenario dall’uscita dell’Ulisse di Joyce? L’evento si ripromette di presentare quella che l’autore chiama “Bibliodiversità”: il numero di autori rappresentati e la varietà delle loro forme di scrittura, opinioni, temi cari. La molteplicità è minacciata dalla violenza, dalla guerra, dal desiderio di mettere a tacere l’altro: partecipare al Salone oggi è partecipare di una diversità ruggente, che non si ferma neanche davanti alle bombe. 

Lagioia lascia presto il posto a una personalità che riconosce avere ben più da dire: Maria Falcone. L’attivista ricorda il fratello e come siano stati proprio i libri a «creare [la sua] indipendenza».         

Da Salgari a D’Annunzio, dopo esserseli divorati tutti, Falcone è diventato il super uomo che tanti hanno solo potuto immaginare e «ha saputo fare della sua vita uno strumento di libertà per la società tutta». Da Maria Falcone arriva l’ultimo monito al Salone: l’imperativo di fare della bellezza un’arma contro la bruttezza della guerra, della mafia, di una realtà che ancora non è come vorremmo e va combattuta, cambiata, rivoluzionata

Oltre 5678 incontri si sono susseguiti per tutto il giorno e quelli seguenti, di seguito i tre eventi che abbiamo selezionato tra i più interessanti cui siamo stati presenti. 


LA STRADA – Elena Varvello 

La poetessa Elena Varvarello si ripropone di parlare di un libro non suo, ma che ha amato: La strada. Il capolavoro di McCarthy viene raccontato a partire dalle sue origini, a partire dall’autore e da quello che è il suo punto di vista sulla scrittura e sul libro in generale. L’autrice si dice inizialmente “imbarazzata” nel parlare di quello che è un libro importantissimo scritto da un’altra persona. «L’unico modo per parlare de La strada sarebbe non parlarne, ma leggerlo (o rileggerlo)»: è così che annuncia che ne parlerà “di lato” (citando Emily Dickinson). 

McCarthy, come i suoi libri, è un vero e proprio “cuore selvaggio”. È un signore di 89 anni oggi, riservato, ha rilasciato solo ad Oprah un’intervista (lei è andata da lui, non sarebbe andato fino a New York).

Alla domanda: «Perché non parla dei suoi libri?» risponde: «Perché fa male alla testa». Se scrivi, pensa infatti l’autore e sottoscrive Varvello, il tuo mestiere è scrivere, non parlare del tuo mestiere. Questa introduzione sullo scrittore è giustificata quando la poetessa spiega: «Tutti noi qui siamo narratori: tutti sogniamo, ricordiamo, immaginiamo. I ricordi sono narrazioni: cambiano nel tempo. Gli autori dedicano anni alla costruzione di un’unica storia, che forse il mondo accoglierà e farà suo per un periodo, per poi doverne trovare, forse, un’altra e dedicarvi altri anni.»

Ciò che rende McCarthy superiore è la sua capacità di andare “oltre il confine”: questo viene dimostrato già nel 1994 quando uscì il suo primo libro, dal titolo omonimo.

Nella lupa – vittima sacrificale, punto focale, archetipo – vi è un riferimento simbolico alla scrittura: essa è «come il copo de nieve, puoi afferrare un fiocco di neve, ma quando ti guardi in mano non c’è più. Prima di poterlo guardare, devi guardarti in mano». Alla scrittura sempre si ritorna, la si deve affrontare da soli, appartiene solo a chi la sa addomesticare e non a chi prova a venderla o a vederla competere. «Non è fiore, ma cacciatrice veloce di cui il vento stesso ha terrore e che il mondo stesso non può perdere.» La strada esce nel 2006, vince il Pulitzer nel 2007 (senza troppe cerimonie dall’autore). La strada è molte cose, racconta teneramente Varvello, ma è anche un romanzo sulla scrittura, sul raccontare storie e sul loro valore profondo. 


Il secondo volto del Salone è quello della formazione: è infatti un luogo in cui è possibile assistere ad esperti che raccontano la letteratura e l’arte dal punto di vista di chi sta dietro le quinte e si rivolgono a chi aspira a fare di una professione la sua passione. 

PROFESSIONI DELL’ARTE – Annapaola Martin e TheSign Academy

Il secondo incontro che abbiamo selezionato è il primo di tre appuntamenti offerti dall’accademia, in cui si narrano le professioni dell’arte nel mondo moderno. Questo si concentrava sulla professione di videomaking.  

Annapaola Martin, filmmaker indipendente, racconta com’è stato iniziare e cosa è cambiato ora: come gli strumenti di oggi possono fare in pochi secondi ciò che prima si doveva fare in ore e come ora sia possibile ottenere prodotti di qualità che prima erano a disposizione solo di chi lavorava in tv. 

Oggi le cose sono cambiate, ma è anche molto più difficile farsi un nome. Ecco perché, racconta, tanti giovani hanno paura. Il consiglio che viene dato è quello di: «andare dove c’è il fuoco: lì si può raggiungere l’eccellenza, il lavoro si trova o si crea». Le persone che si avvicinano al videomaking devono avere una grande apertura culturale: si incontrano tante persone e bisogna essere in grado di relazionarsi, farsi sentire presenti, ma mai invadenti. Le persone, soprattutto nel mondo della musica, sono molto fragili: bisogna avere un’apertura nei confronti della vita, saper stare vicino senza bisogno di criticare. La curiosità è la spinta a cercare storie, inquadratura, sguardi, modi per raccontare.

Quello del filmmaker era nelle sue origini un lavoro non codificato, si è costruito negli ultimi anni. Oggi ci sono tante risorse per iniziare a fare i primi passi nel videomaking, tanti tutorial. Il filmmaker/videomaker, ama dire Martin, è una “one man band”: in televisione sono tante persone a fare determinate mansioni, in un video musicale tutto viene fatto da uno solo. Se anche si richiede tanta conoscenza dal punto di vista tecnico (avere sottomano e saper usare gli strumenti), il punto focale rimane però l’ambito creativo: la creatività non si insegna, ma si può nutrire.

Serve nutrirsi a 360 gradi, continua l’esperta, l’ispirazione arriva da ogni cosa: non solo da film, serie tv… ma da tutti gli ambiti creativi.

È necessario lasciar fluire l’inconscio. A volte si parte da un testo, si creano reti di parole che poi si ampliano e la nostra mente elabora i dati finché non arriva un’idea e funziona. Il consiglio è di non fissarsi sulla prima idea: lasciare che la mente cerchi qualcosa di meno scontato. Fare prima ricerca qualunque sia il lavoro che viene assegnato: questo è utile anche per costruire un proprio stile, una propria immagine. Lo stile è ciò che differenzia dalla massa, la propria personalità che riesce ad uscire. Il mezzo video è fantastico per veicolare contenuti che vengono dall’interiorità: bisogna partire sapendo che l’obiettivo è essere riconoscibili in base alla nostra sensibilità. 


Quale miglior modo per fare pubblicità alle proprie nuove uscite se non partecipando al Salone del libro? La sua funzione promozionale è quello che spinge autori di tutto il mondo a riunirsi a Torino una settimana all’anno: il terzo incontro di cui vi parliamo è quello di Carlotta Vagnoli (presentata da un’inarrestabile Chiara Valerio), che illustra il suo nuovo libro nella Sala Azzurra dove ormai, scherza, viene posta ogni anno. 

MEMORIA DELLE MIE PUTTANE ALLEGRE Carlotta Vagnoli (e Chiara Valerio)

«Conoscete il volto di Carlotta perché nel suo volto c’è la sua bocca che dice cose molto importanti a livello politico», così Chiara Valerio introduce Carlotta Vagnoli. Attivista, influencer, sex columnist, autrice, «donna piena di tatuaggi che non conosco» a seconda che lo si chieda a ognuna delle persone presenti sia ai vari firmacopie, sia nella grandissima Sala Azzurra (peraltro gremita). Dentro il suo libro ci sono molte cose importanti a livello politico, ma soprattutto legate alla sua infanzia.

«Tornare all’infanzia col senno di poi» è qualcosa che non aveva ancora capito, dice seria Vagnoli, perché non si dà un significato agli avvenimenti quando si è bambini. Ogni cosa accade senza che gli venga dato un valore, dopo con gli strumenti si ricodifica tutto e gli si dà un senso. L’infanzia è il motore di tutto.

Come già detto da un’illustre collega, Carlotta Vagnoli «nasce vicino al castello, tuttavia non pensa di diventare principessa, ma guarda tre donne da cui parte un parallelo con le donne di García». Le riporta tramite «un immaginario femminile e femminista».

L’autrice spiega che le donne di cui parla erano viste da lei come guide perché avevano ciò che le mancava: una voce.

Anche le donne della casata della Gherardesca, innalzate da tutti come principesse nobili, erano sempre isolate dalla popolazione, soggetti silenziosi, fantasma, cui non voleva più sentirsi simile. 

Dopo essere diventata «una persona che fa rumore», ha voluto parlare dei suoi modelli formativi. Carlotta smonta la grande mitologia dei Buendía, la famiglia celebre di Cent’anni di solitudine, restituendo la voce delle donne della famiglia al posto che riportare la solita mitologia dell’uomo. L’autrice ha saputo rendere Castagneto Carducci, il suo paese del cuore, un luogo mitologico quanto più simile a Macondo. Come il fittizio paese di Cent’anni di solitudine, anche questo è circondato da un’impervia natura che lo isola dal resto del mondo.

Nel caso di Castagneto Carducci si tratta di una pineta, in cui tra l’altro si nascondono coloro che vogliono compiere illeciti più dal punto di vista morale che non legale. È qui infatti che una furba sex worker si nascondeva con una roulotte in cui portava gli amanti nei paesi limitrofi o che si vocifera avvengano “messe nere”. Lo stesso nome del paese si presta a racconti mitomani: deriva infatti da Carducci, che vi aveva passato solo i primi anni dell’infanzia, come a voler dire «l’abbiamo avuto prima noi».

Tra le donne che influenzano Vagnoli e si prestano a parallelismi con il realismo magico vi è la nonna: una donna molto bella che ha sposato un uomo geloso e possessivo.

Vittima di gelosia cieca, veniva chiusa in casa e aveva soldi contati per messa e spesa. Viene paragonata a Remedios la bella, cui non restava che prendersi il suo tempo nella vasca da bagno. 

Il vero punto forte del romanzo è che scardina la diade santa-puttana, che «non è mai stata vera». Le donne Buendìa insegnano che ci sono “contenitori funzionali” con una capienza potenzialmente infinita, oltre i giudizi monolitici. Tutto ciò che è appannaggio delle puttane, per gli uomini è considerato fighissimo. Se si levano questi giudizi morali si ottengono personaggi a tutto tondo come le donne Buendìa, che vanno oltre perché questi stereotipi non esistono. Le critiche le avevano chiamate viziate, ma non lo sono. Nei romanzi di Marquez, infatti, gli unici personaggi che creano motore sono le donne: anche quando sembra che non abbiano vita oltre al guardarsi allo specchio, in realtà cambiano le cose.

Tutto ciò dimostra come abbiamo sempre dato poco spazio alle donne: darlo e prenderlo è agire politicamente, le Buendìa prendono spazio e agendo in esso fanno della loro vita quotidiana politica. Questa – dice Vagnoli – è la vita di tutte le persone marginalizzate: il loro solo esistere è politico. Sono condannati a non avere rappresentazione, «che è un po’ essere condannati a Cent’anni di solitudine». 

Giulia Scolari
Scienziata delle merendine, chi ha detto che la matematica non è un’opinione non mi ha mai conosciuta. Scrivo di quello che mi piace perché resti così e di quello che odio sperando che cambi.

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