Del: 8 Maggio 2022 Di: Alessandra Pogliani Commenti: 0
Fake news e postmodernità, istruzioni per l’uso

Se una notte d’inverno un viaggiatore, fuori dall’abitato di Malbork con un giornale sottobraccio, guarda in basso dove l’inchiostro si addensa, in una rete di titoli che s’intersecano, in una rete di editoriali che si allacciano… Quale storia laggiù attende la fine? Sarebbe bello poterlo chiedere a Italo Calvino, già che gli si è fatto il verso.

Nel 1979 usciva un suo romanzo che può essere considerato una delle pietre angolari del postmoderno letterario italiano: la linearità della trama è disturbata da interruzioni continue, gli incipit si moltiplicano, non c’è conclusione definitiva se non il disorientamento. Il libro trasuda un senso di indeterminatezza che è quello della condizione postmoderna: sbiadiscono le nozioni di vero e oggettività, il reale viene decostruito e sostituito con le sue interpretazioni – il pensiero è debole, per dirla con Vattimo. Ognuno, di verità, canta la propria.

Un pantano di incertezza perenne in cui oggi si ritrova chiunque voglia informarsi sul mondo.

La selva di fatti, notizie e fake news è una foresta di Brocéliande in cui siamo tutti cavalieri erranti, nel doppio senso del termine: gironzoliamo in pena come le anime dei dannati, sbagliamo di continuo. Manipolate da subdoli ingegneri del caos, le notizie geneticamente modificate hanno imparato a mimetizzarsi con la verità. Apri Google Chrome e sei in un racconto di Borges: nel giardino dei sentieri che si biforcano, realtà e finzione insieme, è impossibile non inciampare nei rovi di bollettini fasulli che proliferano incontrollati. Esisterà mai una via di uscita?

Questa domanda è alla base di un libriccino del professor Carpegna Falconieri, uscito nel 2020 col titolo Nel labirinto del passato. 10 modi di riscrivere la storia. A rendere la lettura parecchio interessante è proprio la sua pubblicazione recente: tra le bufale compaiono anche alcune perle dell’infodemia, neologismo coniato dall’Oms per definire l’ondata di assurdità mediatiche che hanno accompagnato l’ultima pestilenza. Tanto per capirsi: la faccenda dei leoni sguinzagliati in Russia per tenere la gente tappata in casa.

Esistono circostanze più propense di altre alla menzogna. La guerra, ad esempio, è da sempre una fucina di propaganda e ciarlatani.

Per giustificare l’attacco americano a Saddam si mise in giro la voce che l’Iraq aveva in serbo armi di distruzione di massa. Qualche decennio prima, le trincee della Grande guerra si erano trasformate in un deposito abnorme di storia culturale della fantasia, tra episodi paranormali intravisti ovunque e leggende inoculate alle truppe a mo’ di incoraggiamento o per disumanizzare i nemici. Nel 1914 la trovata di un giornalista britannico divenne il mito degli Angeli di Mons: un esercito di spettri armati, guidato niente di meno che da san Giorgio, avrebbe permesso ai soldati della British Expeditionary Force una ritirata fortuita. Dall’altro lato, era risaputo che i sanguinari soldati tedeschi tagliassero le mani a tutti i prigionieri.

I totalitarismi novecenteschi avrebbero rincarato la dose. Basti ricordare che durante la guerra in Etiopia lo stesso generale De Bono fece notare al Duce i rischi delle fandonie che dava ordine di stampare: se si poteva star tranquilli sullo scarso acume dei tesserati, pareva comunque troppo scrivere di una strada costruita in una sola notte dai militari, per di più mentre infuriava la battaglia cogli africani.

Esistono pure epoche più inclini all’inganno rispetto ad altre.

Il medioevo, di falsi, è pieno: pergamene taroccate per far comparire un privilegio utile al signorotto di turno, reliquie finte come la piuma e i carboni che il furbastro Frate Cipolla sventola ai fedeli nella novella di Boccaccio. C’è un capolavoro di Marc Bloch che si intitola I re taumaturghi. È lo studio di una credenza: quella che sua maestà, col solo tocco della mano, potesse guarire le scrofole, altrimenti note come adenite tubercolare.

Pensata come sottile strumento di legittimazione dinastica, la faccenda si ramificò ben oltre gli intenti dei re Capetingi. Sorsero varianti e imitazioni del rito tra unzioni solenni, file di pazienti fuori dal palazzo, dispute ecclesiastiche sulla fastidiosa sacralità del monarca. Per non farsi mancare nulla, iniziarono anche i pellegrinaggi con tanto di gadget sulla tomba di San Marcolfo, misterioso e pio terapeuta, allestiti da monaci con un fiuto per il business che farebbe invidia a Elon Musk. Il punto è che ci si credeva sul serio. Quel che colpisce, infatti, è la sopravvivenza della superstizione nei secoli a venire: per quanto piaccia dire che in età moderna i re era d’uso decapitarli, va ricordato che in molti intingevano ancora il fazzoletto nel sangue blu rimasto sulla ghigliottina, casomai spuntasse qualche acciacco da guarire.

Il pensiero magico è tutt’altro che sepolto dalle stratificazioni del passato. Teorie complottiste, intrugli di fake news, fino alle più improbabili pozioni del terrapiattismo: oggi ci si beve di tutto, e magari sentendosi pure una setta illuminata, investita della missione di risvegliare l’umanità dormiente dal suo letargo dogmatico. Il pensiero magico si insinua nelle correlazioni che diventano subito nessi causa-effetto, nei discorsi che procedono per analogia condensando concetti lontani in accoppiamenti ben poco giudiziosi. L’analogia come campo magnetico per annullare le distanze tra le cose: sembrano un po’ le tavole parolibere dei futuristi. Il tutto con una velocità tale che forse, a voler trovare un rimedio, va rivalutata la farraginosità del ragionamento analitico.

Quello in cui viviamo è un periodo di post-verità più intenso di altri. Non che il vero sia mai andato troppo di moda: solo, i mezzi di comunicazione di cui disponiamo lo rendono alterabile come non mai.

Il digitale è un humus perfetto per i falsari della parola, che a buon diritto Dante spediva a lagnarsi nelle bolge infernali, con le sembianze sfigurate da un febbrone tremendo. Oggi possiamo solo augurarci che vengano radiati dall’ordine dei giornalisti, o che sfoghino la loro fregola inventiva su lidi che non siano quello pubblico di Twitter. Nell’impossibilità di eliminarli, sarà il caso di procurarci un’armatura per addentrarsi nel fitto della boscaglia informativa, e una durlindana per recidere le erbacce che la infestano: tornando ai suggerimenti del professor Carpegna Falconieri, il metodo storico.

Della storia si pensa spesso sia enciclopedismo da eruditi – “tu che sei colto, com’è che era finita quella battaglia là ai Campi di Croco?”. Non è proprio così. Un po’ perché gli spazi di archivio mnemonici son quello che sono, e lo scibile talmente abnorme nelle sue potenzialità che ci si sente sempre ignoranti. Altro che pozzi di scienza aneddotica. Un po’ perché storia non è tanto sapere tutti i fatti, quanto sapere dove e come trovarli: pulire il nocciolo oggettivo dalla polpa delle opinioni, smontare l’artificio della fonte. Domandarsi se è autentica o no, ricordando che anche un falso può rivelare lo Zeitgeist di un’epoca, lo spirito dei tempi.

L’indagine sulle fonti, che è poi il mestiere di storico, insegna a cercare con un’umiltà estranea al positivismo. A dubitare, verificare, confutare.

Un esempio pratico per gli internauti del web: vedo una notizia online e esploro il sito da cui l’ho pescata – chi lo scrive? Cita altre fonti? C’è una data da qualche parte che la renda più affidabile? Ammettendo che tiri aria di panzane, siamo sicuri di non essere capitati su una pagina di satira? O forse abbiamo noi qualche pregiudizio che ci rende meno imparziali nella lettura?

Non sarà la garanzia di uscita dal ginepraio, ma di sicuro una bussola su cui fare sempre affidamento. Insomma, la storia come bagaglio di critica per accostarsi alle notizie che ci bombardano, senza sentirsi sopraffatti e impigriti nell’esercizio del nostro diritto all’informazione. Senza dire a priori che è tutto un fracco di balle. E, tuttavia, prenderle con le pinze.

Alessandra Pogliani
Ostile al disordine e col cruccio di venire a capo dell’anarchia del mondo, per contrappasso nella vita studio storia.

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