Del: 21 Maggio 2022 Di: Alessandra Pogliani Commenti: 0
Radici. Achille Lauro e il populismo all’italiana

Radici racconta fatti, personaggi e umori della storia della Prima Repubblica italiana, dal 1946 al 1994. A questo link è possibile trovare gli articoli precedenti della rubrica.


Di Achille Lauro non c’è solo il cantante noto a noi abitatori della Terza Repubblica. O almeno, il cantante è quello che ci è rimasto: i nostri nonni e genitori, e magari pure qualche nipote che sbadiglia sui libri di scuola, ricorderanno quel suo omonimo sindaco di Napoli che scalò il cursus honorum negli anni Cinquanta e può essere considerato, nella sua carriera politica, un buon esempio di populismo made in Italy.

Quello di populismo è un concetto di estrema complessità, rintracciabile a destra così come a sinistra.

Sono soprattutto i suoi rapporti con la democrazia il rompicapo dei politologi: da un lato i populisti insistono sulla sovranità del popolo, e in questo sono democratici, dall’altro la loro concezione estrema del maggioritarismo è illiberale. Dovendo per forza di cose rimanere nella cornice generica, si può fare un sunto degli ingredienti base. Primo, l’affermazione assoluta del principio di sovranità popolare, insofferente nei confronti di limiti e contropoteri.

Da qui il populismo nazional-sovranista, che guarda con stizza a qualunque autorità sovranazionale percepita come intrusiva (si pensi ai leghisti con l’Unione Europea). Il popolo è depositario di ogni virtù: un intero organico e omogeneo che rivendica il proprio primato anche sulla legge e sulla magistratura. Un volk-nazione a cui il leader carismatico, profeta ventriloquo della volontà collettiva, dà voce. Ogni fallimento non è frutto di un errore del demagogo, ma di qualche oscuro complotto ordito dai nemici – poteri forti, barbari immigrati, istituzioni internazionali. Popolo e capopopolo, infatti, coincidono.

Ora, è chiaro che il popolo come totalità compatta sia un artificio: da quando la volontà popolare è una sola? Il ricorso a un paio di figure retoriche può aiutare a capire meglio il trucco. Nel crescente divario tra sistema e paese reale, di cui il populismo si nutre, emergono più domande insoddisfatte, più popoli eterogenei nella loro natura: sta agli oratori trovare il modo per legarli tutti assieme. In retorica si chiama catacresi: la gamba del tavolo, quel ramo del lago di Como… Anziché coniare una parola nuova per tappare un buco linguistico, si fa ricorso a un termine preesistente. C’è bisogno di nominare un oggetto che è al contempo senza nome e necessario, fondamentale per unificare le varie petulanze sorte dal basso. La costruzione politica del popolo è un procedimento catacresico.

E, in seconda battuta, una sineddoche. Il nugolo di leghisti che votano Salvini diventano i 60 milioni di italiani che siamo e che “devono venire prima”: la parte al posto del tutto. Scovare le domande insoddisfatte, articolarle in una catena equivalenziale, creare su misura della catena un soggetto sociale che si ammanti di inclusività: ecco servito il popolo. Va da sé che, per essere un buon leader di questo genere, un olfatto da segugio sia un requisito necessario.

Achille Lauro, per tutti i concittadini “O’ comandante”, era un armatore. Fu sindaco di Napoli nel periodo 1952-57 (con un incarico anche nel 1961) nonché presidente dell’omonima squadra di calcio.

Già fascista e poi vicino al qualunquismo, si iscrisse infine al Partito Nazionale Monarchico. In breve divenne un campione di consensi plebiscitari, ottenuti con metodi di dubbia integrità a cui però bisogna riconoscere un certo estro creativo. All’approssimarsi delle elezioni venivano orchestrate elargizioni di pastasciutta, banconote o scarpe con consegna rateale: la destra prima del voto e la sinistra all’indomani del buon esito consultivo, come ricompensa per la fedeltà. Il clientelismo e l’attività di esuberante benefattore ebbero un successo enorme: i premi facevano gola, e alla tornata del 1956 Lauro ottenne oltre il 50% dei consensi.

Fin dal 1952, anno della sua prima elezione a sindaco, il personaggio non passò inosservato all’occhio indagatore dei cronisti padani. Il Corriere aprì subito il fuoco: “un nuovo reame dei baroni o, se preferite, dei lazzaroni”. A Torino la Stampa non era da meno: “la propaganda laurina […] ha saputo dare a ciascuno il suo: agli sportivi una squadra di calcio rinnovata e la promessa di conquistare il prossimo scudetto, ai poverissimi lo spignoramento delle lenzuola e della catenina d’oro.” Al vaglio delle testate settentrionali, Lauro assommava su di sé tutti i difetti perniciosi che avevano fino ad allora caratterizzato la politica partenopea, mondo esotico in cui malaffare e corruzione parevano consustanziali alla società. La folla febbricitante dei mangiatori di maccheroni, raffigurati dal pregiudizio antimeridionale nel loro lassismo e nella superstizione più grottesca, aveva trovato il suo Comandante. E questo non faceva che impinguare il repertorio della polemica Nord-Sud.

Le promesse di Lauro circa una Napoli finalmente moderna si persero nel chiasso delle strade rionali. Il sindaco favorì la speculazione edilizia, prosciugò i fondi pubblici per scopi privati, e pur di tenersi il suo ruolo di padre-padrone accettò sussidi nascosti dal governo, patteggiando una scissione nel suo partito. Alla fine, visto il dissesto finanziario che aveva combinato, nella DC si pensò bene di toglierselo dai piedi: “O’ comandante” e la sua consorteria di assessori furono denunciati per peculato. Quanto al popolo, nato monarchico e dal 1954 fedele al Partito Monarchico Popolare dell’armatore, perlopiù cambiò stendardo e morì democristiano.

Achille Lauro, con le sue campagne condotte in modalità per così dire folcloristica, incarnò per bene il paradigma del capo populista.

Come scritto da Lanaro, era un buon annusatore dell’aria ammorbata che ristagna nei bassifondi della società: “sapeva anticipare e trascrivere quel che si borbottava per le strade, riconoscere dignità di stampa alla canzonatura, al lazzo, allo sfogo rozzo e malandrino”. Nel laurismo si può quindi riconoscere un tratto preciso della gestualità populista: quella modalità pratica di conquista del consenso e fidelizzazione tipica dei leader carismatici, che instaurano con la massa un rapporto prima di tutto emotivo.

La sindrome populista non è mai stata una presenza pulviscolare nel nostro Paese. Anzi, pare un robusto fil rouge nella trama degli avvicendamenti repubblicani. Sempre parlando di “male del Nord”, viene in mente il populismo etno-regionalista di Bossi, con la mistica politica utilizzata in funzione antisistema dal suo partito. Pensando agli eredi di Lauro, poi, tira subito aria di discese in campo, contratti cogli italiani, trucco e parrucco fino alla suprema sintesi mediatica, quintessenza del tribunato qualunque, che possiamo ancora goderci su Youtube: “L’Italia è il paese che amo”. Ma qui siamo già nella Seconda Repubblica.


BIBLIOGRAFIA
Paolo Corsini, Democrazie populiste. Storia, teoria, politica, Brescia 2021.
Antonino De Francesco, La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale, Milano 2012.
Salvatore Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Venezia 1992.
Giorgio Vecchio, Paolo Trionfini, Storia dell’Italia repubblicana, Milano 2019.

Alessandra Pogliani
Ostile al disordine e col cruccio di venire a capo dell’anarchia del mondo, per contrappasso nella vita studio storia.

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