Del: 28 Giugno 2022 Di: Angela Perego Commenti: 0
Festival DiverCity 2022, tra riposo e memoria

Rest is a form of resistance and reparation, il riposo è una forma di resistenza e riparazione, recita uno dei pannelli posizionati a lato della mostra fotografica La culla degli incivili, rimasta esposta durante le tre giornate dell’edizione appena trascorsa del Festival DiverCity. Quest’ultima, intitolata appunto Rest, è stata ospitata dal 24 al 26 giugno da BASE Milano, facendo dell’otium – inteso come cura di sé, da realizzare attraverso la contemplazione, lo studio e la resistenza – il proprio fulcro.

Un’occasione per sottrarsi alla frenesia della vita quotidiana, senza però fuggire dalla realtà, anzi:

dando la possibilità di respirare a pieni polmoni prima di trattenere il fiato ed immergersi più a fondo in essa, così da coglierne tutte le storture, lasciando spazio a narrazioni diverse da quelle che ci vengono continuamente proposte.

Tantissimi i temi trattati nel corso di queste tre giornate, in cui si è indagato il rapporto tra abilismo e razzismo, il problema di quanto quest’ultimo sia radicato nei media, nell’arte e nella fotografia, fino ad arrivare all’importanza della lotta contro la società patriarcale in cui siamo immersi e alla necessità di restituire significato all’esercizio della solidarietà. La complessità delle tematiche affrontate e il carico di dolore che queste portano con sé – essendo state esposte da professioniste e professionisti, attiviste e attivisti che con esse hanno a che fare quotidianamente, non solo nell’ambito della propria vita professionale ma anche privata – sono stati accompagnati dalla predisposizione di spazi dedicati al relax e alla ricerca di percorsi di cura, nella consapevolezza che, in una società che misura il valore degli individui sulla base della produttività, il riposo è “esercizio di libertà e soluzione anti-performativa al trauma generazionale di chi si è affannato per resistere alle ingiustizie sistemiche del nostro mondo”.

La bellezza, l’arte, l’attenzione nei confronti della propria salute mentale e i molteplici modi con cui ci si può prendere cura di sé sono infatti fondamentale trampolino di lancio verso il genio e l’ispirazione:

non è possibile lottare per rivoluzionare la società dalle sue fondamenta se prima non si è usciti dalle dimensioni performative che la caratterizzano e non ci si è concessi del tempo per prendere coscienza della propria identità, nonché dei molteplici meccanismi con cui spesso il mondo in cui viviamo cerca di annullarla, ingaggiando una vera e propria lotta a corpi e soggettività percepiti come difformi. Non concedersi, ma pretendere uno spazio, fisico e mentale, da occupare con la propria personalità, è un atto rivoluzionario, essenziale per ricostruire la propria storia personale ed emotiva, dando una forma, attraverso i più disparati linguaggi espressivi, a quella sofferenza e a quella rabbia che l’oppressione sistemica e la quotidiana discriminazione suscitano.

Particolarmente significativa da questo punto di vista è l’installazione centrale attorno alla quale è stata costruita la mostra fotografica La culla degli incivili, cioè L’altare della cura, per raggiungere il quale bisogna passare attraverso l’altrettanto suggestivo Tunnel della memoria. All’ingresso del tunnel troviamo Upendo e Akili, guardiani della giustizia con indosso un’armatura dorata e impreziosita. Le opere, realizzate da Andi Nganso e Maurizio Talanti, rappresentano eros e psiche, amore e saggezza, cioè “quegli strumenti di umanità che soltanto possono permettere il raggiungimento di una piena consapevolezza volta al cambiamento delle condizioni dei soggetti razzializzati e marginalizzati”. Condizioni di cui si può dolorosamente fare esperienza passando per il Tunnel della memoria, un corridoio da attraversare con scomodità fisica, in ragione dei suoi spazi angusti, ed emotiva, essendo tappezzato con le fotografie di Sara Prestianni che, provenendo dalla Libia, dalla Grecia e dal sud d’Italia, raccontano come molte persone migranti siano sistematicamente esposte a ingiustizie, umiliazioni e razzismo. Il tunnel si fa metafora del percorso di dolore e violenza di certe migrazioni anche grazie alle opere audio di Elsa Mbida, sound artist camerunense, in grado di riprodurre il rumore delle onde del mare e, in generale, “l’inquinamento sonoro presente in quegli spazi dove non è concesso il privilegio di godere del silenzio”. Al termine del corridoio ci si ritrova davanti all’Altare della cura, composto di cappelli Juju, cioè esibizioni creative e variopinte di piume, originarie della cultura camerunense.

Un luogo simbolico che, intorno alla metafora della veglia come stato collettivo di consapevolezza e memoria, si proietta verso il futuro e verso una redenzione storica e umana del soggetto vulnerabilizzato.

I guardiani della giustizia all’ingresso del Tunnel della memoria. In fondo si intravede l’Altare della cura
Fotografie di Sara Prestianni all’interno del Tunnel della memoria
L’Altare della cura

«L’Altare della cura rappresenta l’importanza che la cultura afrodiscendente attribuisce al ricordo di chi c’è stato, permettendoci di collegare le nostre radici e di costruire qualcosa di solido e veritiero, dal momento che le fondamenta su cui il mondo di oggi è costruito sono menzognere – ha ricordato Andi Nganso, fondatore e direttore esecutivo del Festival, durante il panel intitolato Le guerre dimenticate: restituire significato all’esercizio della solidarietà – Abbiamo l’obbligo di restituire a noi stessi la verità sulla nostra storia». Ed è proprio questo l’obiettivo del Festival DiverCity, avente tra i suoi “motti” la frase We are the answer to the prayers of our ancestors: ricostruire una storia collettiva, a seguito della decolonizzazione e decostruzione della narrazione univoca proposta dall’Occidente. Un Occidente che si deresponsabilizza non solo rispetto al modo in cui la storia viene raccontata, ma anche per quanto riguarda il dipanarsi della storia stessa, dal momento che non riconosce di avere il potere di creare disparità tali da determinare il prodursi delle guerre – di avere, insomma, una responsabilità circa le condizioni che creano la guerra.

Da qui l’importanza, invece, di “diventare storici, ricordandoci e sforzandoci di ragionare su ciò che c’è stato”,

e da qui anche il significato che può assumere la partecipazione a questo Festival di persone bianche e privilegiate, accettate dalla società in cui vivono e non sottoposte a discriminazioni in ragione della propria provenienza, del colore della pelle, dell’orientamento sessuale o delle proprie condizioni fisiche: mettersi in ascolto e in discussione. Sforzarsi di imparare. Raccogliere la parola diffusa dalle soggettività marginalizzate e contribuire a metterla in circolo, perché, per il rovesciamento di una società razzista, abilista e patriarcale, divisa in oppressi e oppressori, è necessario ed urgente un cambiamento di prospettiva.

Angela Perego
Matricola presso la facoltà di Giurisprudenza, “da grande” non voglio fare l’avvocato. Nel tempo libero amo leggere e provare a fissare i miei pensieri sulla carta.

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