Si avvicina ormai inesorabilmente per molti Comuni dell’hinterland milanese l’appuntamento delle prossime elezioni amministrative. Il 12 giugno, i cittadini lombardi saranno chiamati a rinnovare sindaci e consigli comunali – fra gli altri – di Abbiategrasso, Buccinasco, Cernusco sul Naviglio, Garbagnate Milanese, Melegnano, Melzo, San Donato Milanese, Senago, Sesto San Giovanni. Territori dove da decenni – le inchieste giudiziarie lo attestano chiaramente – la malapianta del potere ‘ndranghetista, delle giunte-comitati d’affari e delle lobby imprenditoriali del cemento e dei rifiuti dedite a lucrose speculazioni, operazioni di riciclaggio e voti di scambio, ha preso il sopravvento, contaminando con la complicità della collusa classe dirigente lombarda settori sempre più consistenti della politica e dell’economia legale.
Fra le realtà più preoccupanti, e non solo in temperie d’elezioni, spicca quella di Buccinasco. Dove di recente si è tornati a sparare, come testimoniato dalla brutale esecuzione di Paolo Salvaggio. Classe ’57, nativo di Pietraperzia (Enna), intermediario del traffico di cocaina tra le cosche di ‘ndrangheta a Milano, i cartelli colombiani e i clan montenegrini, già fornitore privilegiato di Michele Grifa, boss del quartiere milanese di Gratosoglio, e in rapporti con i Magrini, ritenuti vicini a Savinuccio Parisi, boss della Sacra Corona Unita. Il 64enne broker della droga, soprannominato Dum Dum, è stato freddato la mattina dell’11 ottobre 2021 in via Della Costituzione da tre colpi di proiettile esplosi da sicari a bordo di un T-Max nero. La Procura di Milano sta indagando per stabilire il movente e l’identità di mandanti ed esecutori materiali.
È la storia che si ripete. Cinquant’anni fa, proprio a Buccinasco si insediavano centinaia di famiglie calabresi provenienti da Platì (Reggio Calabria), tra cui quella dei fratelli Domenico, Rocco e Antonio Papalia, figli del capobastone Giuseppe Papalia, classe 1905, detto U carciutu. È il 1974, e Buccinasco si appresta ad essere ribattezzata “la Platì del Nord”. Mentre Franco Coco Trovato, boss di Marcedusa (Catanzaro), trasferisce cospicua parte dei propri traffici – rapine, estorsioni, sequestri di persona – a cavallo tra il Comasco e il Varesotto, a Milano i Papalia stringono alleanze “di sangue” con le ‘ndrine Barbaro, Sergi, Morabito, Catanzariti, Bruzzaniti, Trimboli, Molluso, Flachi, Paviglianiti, Di Giovine-Serraino, Agresta: tutte originarie di Platì.
In un periodo in cui a dominare nell’opinione pubblica e negli ambienti del potere era la sedativa narrazione di un Nord in cui la mafia non esiste, i tentacoli della ‘Ndrangheta si estendevano già su interi quartieri della periferia di Milano.
Negli anni ’80, il capoluogo lombardo è una delle capitali europee del traffico di droga, usure ed estorsioni: attività estremamente lucrose, di cui la ‘ndrangheta – come raccontano Nicola Gratteri e Antonio Nicaso in Storia segreta della ‘ndrangheta (Mondadori, 2018) – non tardò a capire la convenienza, dal momento che si prestavano a immediato canale per il reinvestimento dei proventi dei sequestri di persona degli anni ’70.
Quegli anni ’70 che, a Milano, sono segnati dalla faida tra i Barbaro-Papalia e il gruppo degli “zingari”, culminata il 9 ottobre 1976 con l’omicidio a colpi di revolver del capoclan nomade Giuseppe De Rosa, davanti alla discoteca Skylab nel quartiere di Porta Romana, a Milano. Un caso rimasto irrisolto fino al 2012, quando a seguito di un’intercettazione tra due affiliati captata nel corso dell’inchiesta “Platino” del gennaio 2014 si è scoperto che a commetterlo fu Rocco U ‘nginu Papalia, in carcere dal settembre 1992 per una lunga serie di reati in materia di sequestri di persona e traffico di droga. Ne uscirà definitivamente nel maggio 2017, dopo 25 anni trascorsi al 41-bis più altri due in una casa lavoro. Rientrato a Buccinasco, scopre che durante la sua lunga assenza una parte della sua villa di via Nearco, il cortile interno con annessi box, è stata confiscata e acquisita al patrimonio del Comune per farne un centro di accoglienza per minori stranieri. Sorge un contenzioso con l’amministrazione retta da Rino Pruiti (Pd), che nel dicembre 2020 sfocia in una causa civile. Papalia ha sempre rivendicato di aver fatto per la città molto di più di quanto non abbia fatto il sindaco, negando a più riprese contro ogni evidenza che a Buccinasco la ‘ndrangheta sia mai esistita.
Quanto ai suoi fratelli, Antonio Papalia, classe ’54, tre ergastoli e 79 anni di reclusione sulle spalle, è ancora in carcere, benché dal 2006 non più al 41-bis: ora si dedica alla poesia. Domenico Papalia, classe ’45, è invece ergastolano ostativo detenuto tuttora in regime di alta sicurezza nel carcere di Parma. Dietro le sbarre dal 1977, si ritiene abbia continuato (almeno finché la salute gliel’ha permesso: attualmente ha un tumore in stadio avanzato) a gestire dal carcere l’operatività dell’organizzazione, riuscendo con abilità a conservare il ruolo di regista occulto dell’attività criminale delle cosche e, d’altro lato, a guadagnarsi le simpatie di Radicali e pseudogarantisti che a ogni piè sospinto ne hanno invocato l’innocenza gridando al complotto. Dei tre ergastoli che gli sono stati inflitti, quello per l’omicidio del boss Antonio D’Agostino consumato fuori da un ristorante romano il 2 novembre 1976 gli è stato revocato nel 2017 dopo che una perizia balistica aveva escluso fosse stato Micu Papalia a sparare, portando dopo 34 anni dal passaggio in giudicato della sentenza alla revisione del processo.
Resta invece colpevole il mammasantissima Micu Papalia (oltre che per l’uccisione dell’avvocato Pietro Labate nel 1983 a Milano, che gli vale il secondo ergastolo all’esito del processo scaturito dall’inchiesta “Nord-Sud” dell’ottobre 1993) per l’omicidio di Umberto Mormile, educatore penitenziario in servizio presso il carcere di Opera. L’11 aprile 1990, mentre si sta recando al lavoro come tutte le mattine, Mormile viene ucciso sulla provinciale Binasco-Melegnano, all’altezza di Carpiano, da sei colpi di una calibro 38 special esplosi contro la sua Alfa Romeo 33 da Antonio Schettini e Antonino Cuzzola (oggi collaboratori di giustizia), che lo affiancano a bordo di una Honda 600 mentre è fermo a un semaforo. A rivendicare l’omicidio alla redazione bolognese dell’Ansa è un sedicente gruppo terroristico che si fa chiamare “Falange Armata Carceraria”. Una sigla – quella di Falange Armata – che ritornerà in occasione degli attentati della Uno Bianca nei primi anni ’90, dell’omicidio del giudice Nino Scopelliti il 9 agosto 1991 e delle stragi continentali nel ’93, organizzate dai fratelli Graviano ma concepite negli ambienti dei servizi segreti.
Nel 2017, Domenico e Antonio Papalia sono condannati in via definitiva al carcere a vita – in concorso con Franco Coco Trovato – in qualità di mandanti del delitto Mormile.
Dopo una serie di complesse indagini ostacolate dalla stessa amministrazione penitenziaria e un giudizio di primo grado (conclusosi nel 2008) che scontava il depistaggio posto in essere dal falso pentito Schettini, teso a dipingere Umberto come un corrotto “colpevole” di non aver rispettato i patti quanto ai benefici promessi, la verità ha cominciato – parzialmente e nel giro comunque di qualche decennio – a venire a galla. Stando a quanto riferito dal collaboratore Vittorio Foschini, sentito nel processo di primo grado ‘Ndrangheta stragista e in quello d’appello sulla Trattativa Stato-mafia, Umberto Mormile era stato testimone di una serie di incontri non autorizzati avvenuti nel carcere di Parma – dove prima Mormile prestava servizio – e in seguito in quello di Milano-Opera fra esponenti non identificati dei servizi segreti e il Papalia. Un fatto da considerarsi ormai incontrovertibile anche alla luce delle indagini dalla Dda di Milano, alla quale un funzionario del Sisde, interrogato tra il 2020 e il 2021, ha ammesso di aver effettuato periodicamente già due anni prima dell’omicidio Mormile, e così anche nel periodo successivo, accessi occulti nell’istituto penitenziario di Opera. Le indagini sul punto sono ancora aperte, a seguito dell’accoglimento da parte del gip di Milano Natalia Imarisio dell’opposizione alla richiesta di archiviazione presentata dall’avvocato Fabio Repici.
Rapporti perversi, quindi, quelli fra apparati del Sisde e boss mafiosi, che avrebbero ottenuto il benestare dello stesso Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nell’ambito di una sorta di Protocollo Farfalla ante litteram. L’educatore penitenziario, data la sua notoria incorruttibilità, avrebbe sicuramente denunciato all’autorità giudiziaria quegli incontri illegali, rendendo difficile per Papalia continuare a coltivare le sue trame con gli uomini dei servizi (comprovate da tutti i pentiti di area ‘ndranghetista). Per questo andava eliminato.
Non per nulla, dal 1990 in poi, il trattamento penitenziario di Micu Papalia risulta subire – atti alla mano – un regime insolitamente mite per un ergastolano al 41-bis: permessi premio ingiustificati, scarcerazioni non dovute, benefici concessi da magistrati di sorveglianza presumibilmente prezzolati e relazioni di sintesi favorevoli rilasciate da funzionari compiacenti. Rilevanti sono anche le dichiarazioni del pentito Annunziato Romeo circa i rapporti tra Papalia e il generale dei Carabinieri Francesco Delfino (deceduto nel 2014) e suo fratello Antonio, giornalista, che avrebbe funto da trait d’union tra la cosca e il mondo politico.
E sono proprio le piste dei contatti con la politica, della strategia stragista e dei legami con Cosa Nostra e con gli ambienti dei servizi segreti (come nel caso Mormile) e della destra eversiva (come nel caso dei moti di Reggio Calabria del ’70-’71 e del fallito golpe Borghese del ’70) a rivelare la essenza stessa del fenomeno ‘ndranghetista.
A rendere chiaro, cioè, una volta per tutte che non si ha a che fare con una ‘ndrangheta intesa come mera “potenza di fuoco”, ma con un’organizzazione che sa orientare il consenso, spostando pacchetti di voti e interfacciandosi direttamente col potere, grazie anche alla capacità relazionale che le deriva dall’elevata disponibilità di capitali provenienti dal traffico di stupefacenti.
Così come non va trascurata, a proposito della ricorrente sigla “Falange Armata”, la questione della responsabilità di interi pezzi di Stato dietro ai plurimi episodi di interlocuzione, trattativa, depistaggio intercorsi con la mafia nel corso della nostra storia repubblicana, di cui gli incontri riservati di uomini dei servizi con il boss Domenico Papalia a fine degli anni ’80 costituiscono il naturale precipitato. Illuminante è, sotto questo profilo, un passaggio della requisitoria pronunciata nel luglio 2020 dal procuratore aggiunto presso la Dda di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, nell’ambito del processo di I grado ‘Ndrangheta stragista: da sottolineare è come, secondo il pm Lombardo, quelle «componenti originariamente non mafiose», che sceglievano di collocarsi in una posizione utilitaristica e di complicità rispetto al «progetto criminale» di eversione terroristico-mafiosa del periodo ’92-’93 in continuità con le stragi eseguite da Cosa Nostra in concorso con esponenti della destra eversiva, ma pur sempre su ordine di pezzi di Stato deviati, «diventa[va]no mafiose nel momento in cui [venivano] a compenetrarsi con ‘Ndrangheta, Cosa Nostra e altre organizzazioni di criminali di tipo mafioso nell’ambito di quel progetto».
Un progetto i cui interessi criminali ebbero quale centro propulsore, fra l’altro, proprio Milano, per la precisione l’autoparco di via Salomone. Luogo nel quale, secondo le convergenti dichiarazioni dei pentiti Antonino Fiume, Salvatore Pace, Vittorio Foschini e Antonino Cuzzola, si sarebbe riunito il cosiddetto “Consorzio”, organo di vertice costituito tra il 1986 e l’87 per spartire gli affari nei ricchi territori del mandamento lombardo, e di cui facevano parte personalità di altissima caratura criminale, tra cui gli stessi fratelli Papalia, Franco Coco Trovato, Pepè Flachi (detto “il re della Comasina”), unitamente a esponenti di altre organizzazioni mafiose, come gli Ascione e i Fabbrocino per la camorra, Jimmy Miano e Santo Mazzei per i catanesi, gli Annacondia per i pugliesi. Una vera e propria confederazione intermafiosa, un sistema criminale integrato che avrebbe consolidato un coacervo di relazioni stabili anche con esponenti dell’alta mafia, con la massoneria deviata e con il livello istituzionale apicale degli apparati di sicurezza dello Stato.
Questo è il quadro che si presenta innanzi, e che lascia tuttavia ancora nell’anonimato gli ipotetici (e al tempo stesso certi) responsabili istituzionali occulti gravitanti in seno a questa sorta di “Cupola” criminale lombarda di cui parlano i collaboratori.
Qualche chiarimento, invero, comincia a scorgersi dalla richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale formulata lo scorso gennaio dallo stesso pm Giuseppe Lombardo – e accolta il mese successivo dalla Corte d’assise d’appello di Reggio presieduta da Bruno Muscolo – nell’ambito del processo d’appello ‘Ndrangheta stragista.
Chiarimenti che riguardano, ad esempio, il tema della massoneria e dei poteri occulti anche (e soprattutto) nella struttura ‘ndranghetistica lombarda. A tal proposito, il procuratore Lombardo sottolineava nella sua richiesta come Mico Papalia rappresenti tuttora «il vertice nazionale della ‘Ndrangheta. I Papalia sono tra le pochissime famiglie che hanno un vertice anche di tipo occulto. Sullo sfondo c’è sempre la P2». A confermare poi la riconducibilità di Falange Armata a comparti interni del Sismi concorrerebbero alcuni documenti desegretati e acquisiti agli atti del processo, relativi all’archivio del sociologo Giuseppe De Lutiis (deceduto nel 2017). Essi consentirebbero di ricostruire, secondo il pm Lombardo, nell’ambito dei cosiddetti tre livelli di Gladio (altra presunta sigla terroristica, su cui indagava Giovanni Falcone) la vera natura di Falange Armata: «All’interno di questi tre livelli di Gladio, il nucleo di maggiore rilievo è indicato in quegli appunti come “Fal. Arm.”. È Falange armata. La “componente deviata” di cui parla Antonio Schettini è una struttura interna al Sismi, al Gos e al Noc. Nessuno parla di istituzione nel suo complesso. C’è un problema interno riferibile a ben individuati soggetti».
Stabilire quali siano questi “ben individuati soggetti” interni allo Stato è una missione che coinvolge non solo la magistratura reggina. Coinvolge tutti. Il punto di partenza ce l’abbiamo: la VII divisione del Sismi. Il punto di approdo può essere la ricerca della verità sulla strategia stragista, sul mistero dei mandanti occulti delle stragi, sulle responsabilità di soggetti estranei a Cosa Nostra e ‘ndrangheta. Oppure l’accettazione del condizionamento mafioso dell’ennesima tornata elettorale. Sta a noi scegliere.