
Se il consumatore non va all’Esselunga, pazienza: di questi tempi sono i supermarket a corrergli incontro. Nulla di eclatante, si dirà: la spesa a domicilio mica è un brevetto di ieri. È piuttosto la rapidità il tratto innovativo dei nuovi servizi che stanno allungando il raggio di copertura nei capoluoghi italiani. Non occorre più scegliere un giorno e una fascia oraria di consegna: imbustati ortaggi e prosciutti in base al nostro carrello virtuale, il fattorino si materializzerà alla porta nel giro di pochi minuti, armato di sportine cartacee e bicicletta elettrica come comandano gli standard della sostenibilità.
Applicazioni come Gorillas, Getir e Macai possono essere ascritte al meccanismo di penetrazione dell’area domestica che caratterizza i consumi odierni.
A giudicare dal loro crescente successo, le recenti modalità di infiltrazione casalinga non sembrano turbare granché. Finora nessuno si è lamentato di abitare in una specie di vendita al dettaglio in cui ogni locale, dal bagno al ripostiglio, è in potenza uno spazio per consumare. E ogni attimo della giornata pure – al momento il servizio è attivo dalla mattina presto a mezzanotte, ma la tendenza del settore è al funzionamento senza sosta, 24 ore su 24.
I limiti spazio-temporali non sono gli unici a subire un processo di erosione. Lavoro e lezioni universitarie si possono svolgere da casa, sempre più attività si trovano on demand, e la vita stessa, ormai svincolata dal cammino del sole verso ponente, è per tante persone un continuo sfaso del ritmo circadiano. I confini delle cose franano gli uni negli altri tra reality show, infotainment, musei che vendono souvenir. Polarità come pubblico e privato si offuscano a vicenda. Tutto è in tutto, in un caos di contorni che forse nasconde creature mostruose, ma di certo ammalia coi suoi canti di sirena.
Tra le onde del mare che mette in vendita ogni terra sommersa, i nuovi strumenti di consumo sguazzano senza troppe difficoltà. Centri commerciali e discount che non dormono mai, fast fashion con express delivery, crociere, parchi divertimento a tema. Sistemi sempre più grandi, efficienti, razionalizzati in una maniera tanto esagerata che delle catene di montaggio non si coglie l’alienazione, ma l’incanto. La prevedibile ubiquità di Starbucks non deve apparire come la peste dell’uguale da cui metteva in guardia Baudrillard, ma come la magia confortante del sentirsi a casa anche quando si viaggia. Quanto alle interazioni umane, ridurle a un canovaccio essenziale non è negativo: è solo la garanzia del rifornimento anonimo e senza intoppi che vogliamo.
Per tenere in vita la loro capacità seduttiva, le cattedrali dell’iperconsumo convertono ogni minaccia di disincanto in un nuovo spettacolo pirotecnico, ogni giorno più minuzioso.
In un saggio scritto con caustica freddezza (La religione dei consumi, 1999) lo studioso americano George Ritzer ha indagato col suo bisturi da sociologo le interiora di questo fenomeno ormai globale. A leggerlo, il libro ricorda quello che per molti ragazzi degli anni Sessanta fu il testo sacro firmato Marcuse. Lo scenario di Ritzer, però, sono gli Stati Uniti: la sagoma dell’uomo a una dimensione, soffocato fino alla mimesi con la società industriale, va scorta tra le pile di prodotti in formato convenienza che affollano Walmart e Costco.
La clientela fluttua tra reparti scatolame e siti di e-commerce in preda a un’ipnosi che oggi si potrebbe paragonare all’effetto di un video ASMR. Una cortina di gradevole rimbambimento per cui il consumatore, intorpidito nelle facoltà razionali dalla libidine dei sensi, accidioso più del solito e stufo del monotono scorrimento verticale del feed di Instagram, pigia il bottone dell’app e ordina al volo. Qualora si dimenticasse di farlo, può star certo che prima o poi sullo schermo salterà fuori un banner col nuovo codice promozionale Getir, per avere un omaggio ogni dieci euro di spesa. Cifra che, visto il listino prezzi da suite pentastellata, corrisponderà all’incirca a due pacchi di biscotti frollini – ma questo è un altro discorso.
Interrogarsi sulle derive della società opulenta è più che lecito, in un’epoca in cui l’impatto ambientale campeggia come un monito sopra le insegne fluo di negozi e fast food.
Del resto, il fascino dell’acquisto ci ha indotti in un tale stato di assuefazione al lavora-e-spendi da rendere assurda e bacchettona qualsiasi proposta di contenimento. Difficile incontrare un Catone il Censore redivivo che ci trattenga dallo scialacquare i nostri risparmi nell’ennesimo abitino floreale. Al massimo lo si potrà prendere su Vinted, e comunque non prima di aver consultato qualche guru di armocromia, esperienza che pare essere la nuova frontiera dell’antropopoiesi e del ritrovamento di sé.
Sfuggire all’attrazione osmotica del consumo è faticoso. Per quanto siamo sempre liberi di non comprare, appena saltiamo via da un’occasione di shopping finiamo per approdare a un altro miscuglio di affari imperdibili e advertising indesiderato. L’immagine che forse rende meglio l’idea è quella dell’arcipelago carcerario di Foucault: la via di uscita senza acquisti esiste ancora, ma non porta che all’isola di consumo successiva.
Trainate dalla competizione del mercato azionario, le multinazionali hanno tutti gli interessi a espandere la domanda di beni e servizi. Esistono squadre di addetti che studiano i comportamenti del cliente, suggerendogli di compilare un’innocua wishlist, per poi orchestrare campagne di marketing mirate. Schiere di influencer assoldati apposta per intortare i seguaci con la storia dell’accettarsi nella propria aurea mediocrità, e poi sventolare davanti a loro l’ultimo arnese per la skincare, l’acqua profumata che aiuta a bere di più, il cappottino per il chihuahua. Ciò che siamo, dicono, ci deve bastare. Quel che abbiamo, guai.
Parlare di domanda è mestiere da economisti, ma se la si mette giù in termini psicologici il gioco cambia: niente lascia in gola più arsura delle bibite tanto fresche che però non dissetano.
Perché preoccuparsi di disponibilità finanziarie effettive, quando è sufficiente presentare un aggeggio come must-have? Un gadget superfluo eppure, come compensazione o status symbol, essenziale. L’insazietà perenne si muove di un moto circolare per cui chi la alimenta e chi ne accusa i sintomi compulsivi hanno necessità l’uno dell’altro, in egual misura.
Ognuno ha la sua idea di baratro. Quello del consumatore somiglia a un conglomerato di cartelli pubblicitari e manchevolezze perpetue, che frutta un falso bisogno per ogni capriccio che promette di soddisfare. Nel suo prontuario di città maledette, da leggere pescando a caso come si fa con la letteratura combinatoria, Italo Calvino ha dedicato tutta una serie alle città e ai desideri: metropoli moltiplicatesi in planimetrie ideali e mai concrete, centri abitati da schiavi illusi di goderne le messi.
Eppure, Isidora non è tra loro: la si trova all’inizio, Le città e la memoria 2 per chi volesse le coordinate esatte. Isidora è un luogo dei sogni in cui si arriva in ritardo. Di parecchi anni se si va a piedi, racconta Marco Polo al Kublai Khan mentre attraversano le sale del palazzo tartaro. Di una frazione di secondo per chi la ordina online, si potrebbe aggiungere nel 2022. Come un paradiso usa e getta nell’attesa dell’ultimo modello, un Eden che non ripaga mai. All’approssimarsi i desideri sono già scaduti in ricordi. La muraglia di perla, cintola di una Gerusalemme celeste immaginata nei secoli, rivela i rampicanti secchi che invecchiano il suo volto di Babilonia.