Del: 24 Giugno 2022 Di: Alessandro Girardin Commenti: 0
Le inchieste anti-‘ndrangheta nel comasco

Pericoli di infiltrazioni mafiose nell’assetto imprenditoriale e di condizionamento e assoggettamento dell’attività economica alla minaccia mafiosa. Questi i presupposti che hanno indotto la Sezione autonoma misure di prevenzione del Tribunale di Milano, all’esito di una lunga e complessa indagine condotta dalla Direzione distrettuale antimafia, a disporre l’amministrazione giudiziaria per la sede comasca della Spumador S.p.A., colosso internazionale del soft drink.

Ultimo atto di una maxinchiesta, denominata Cavalli di razza, che aveva portato il 16 novembre 2021 all’esecuzione di 54 provvedimenti di fermo, su un totale di 113 misure cautelari eseguite nelle province di Reggio Calabria, Milano, Como, Varese, Firenze e Livorno.

Un duro colpo per una ‘ndrangheta ormai tradizionalmente radicata in territori, quelli del centro-nord Italia, che soprattutto negli ultimi anni si sono rivelati a dir poco permeabili alla “rete di relazioni” che le cosche sono andate intrecciando col mondo colluso dell’imprenditoria e della politica locali. È un’organizzazione criminale sempre più ramificata e a vocazione affaristica quella che emerge dalle carte giudiziarie.

L’operazione era stata eseguita nel coordinamento investigativo fra le Direzioni distrettuali antimafia di Reggio Calabria, Firenze e Milano, che in totale avevano richiesto 36 arresti e 14 misure di custodia cautelare e disposto 54 provvedimenti di fermo, oltre al sequestro di una tonnellata di cocaina proveniente dal Sudamerica.

Il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri e l’aggiunto Gaetano Paci, titolari del filone calabrese dell’inchiesta, avevano ripreso le parole di uno degli indagati intercettati a proposito di una «nuova narcos europea». Un’organizzazione criminale transnazionale al cui vertice vi sarebbe stata la ‘ndrina Molé di Gioia Tauro, ripresasi – a quanto pare – dal duro scontro avuto una decina di anni fa con la cosca Piromalli, sua storica alleata nel controllo dei “fiumi d’oro” che passano per il porto gioiese e con addentellati, fra l’altro, nel livornese.

Quanto al filone lombardo, condotto dalla Squadra mobile di Milano e dal Nucleo di Polizia Economico Finanziaria della Guardia di finanza, sotto la direzione dell’aggiunto della Dda milanese Alessandra Dolci e dei pm Sara Ombra e Pasquale Addesso, gli inquirenti avevano ricostruito una fitta rete di società cooperative e ditte, utilizzate dalle cosche calabresi operative nelle zone di Como e Varese per riciclare i proventi delle attività illecite attraverso i “canali” dell’economia legale. Principalmente nei settori dei trasporti, della logistica, della ristorazione, dei servizi di pulizia.

L’indagine mette in evidenza le modalità di mimetizzazione e colonizzazione dell’odierna organizzazione criminale: si parla ormai di “’ndrangheta 2.0”, o “’ndrangheta società d’affari”, per indicare un sodalizio criminale mafioso che, da almeno una quindicina d’anni – secondo le parole della stessa procuratrice Dolci – «ha cambiato strategia, passando da reati tipicamente predatori, le estorsioni sul territorio, a reati a connotazione economico-imprenditoriale, e quindi le evasioni fiscali e le bancarotte. Hanno sostituito le mazzette provento delle estorsioni con le distrazioni di società poi portate al fallimento e con i proventi dell’evasione fiscale».

Al “sottomondo” arcaico delle locali, dei riti di affiliazione, delle mangiate collettive, si affianca così un’attività di controllo e condizionamento sempre più pervasivo delle attività economiche sul territorio.

«Noi siamo come le raccomandate, arriviamo direttamente a casa», è la frase intercettata che dà misura dell’intensità della forza intimidatrice e dell’autorevolezza del mondo ‘ndrangheta, come sottolineava il procuratore aggiunto di Milano Riccardo Targetti. Siamo di fronte a un misto di «arcaicità e modernità», una forza intimidatrice di carattere più tradizionale che si accompagna all’interesse di imprenditori costretti a colludere e a «fornire il loro know-how», attraverso la predisposizione di «decine di cooperative nei settori delle pulizie, del facchinaggio e del trasporto» e la realizzazione di «ricchezze illegali» garantite da un sofisticato sistema di «fatture false, con l’omissione del pagamento delle imposte per milioni e milioni di euro sottratti al Fisco, all’Ue e all’Inps».

È proprio questo che fa della ‘ndrangheta – si legge nel decreto di fermo – «un vero e proprio sistema di potere che entra in rapporto con i poteri economico, politico e imprenditoriale», instaurando con essi «relazioni stabili non solo di carattere corruttivo ma anche di vicinanza e contiguità».

Quel che più colpisce è dunque il legame a filo doppio che connette la criminalità organizzata alle amministrazioni locali e alle realtà imprenditoriali.

Stando ai riscontri degli investigatori, il punto di non ritorno fu rappresentato dalla riunione di Gioia Tauro del marzo 2010, cui avrebbero preso parte insieme agli uomini della ‘ndrina Molé anche Marino Carugati, ex sindaco di Lomazzo, e Cesare Pravisano, ex assessore presso lo stesso Comune ed ex funzionario della Banca commercio e industria, entrambi indagati nel novembre dell’anno scorso.

In quel summit, sarebbe stato stipulato l’accordo tra le famiglie calabresi attive tra il varesotto e il comasco e i due ex pubblici ufficiali – che nel 2019 hanno patteggiato una condanna per bancarotta – per «l’avvio di una “nuova fase” in cui – si apprende dal decreto – alle estorsioni si giustappone il controllo delle attività economiche nel settore dei servizi attuato attraverso i consorzi e le cooperative nella disponibilità di Pravisano».

E così due società titolari del ristorante stellato “Unico Milano”, in cima al prestigioso World Join Center di viale Achille Papa, a Milano, sarebbero finite nell’orbita dei padrini calabresi per tramite di un commercialista gioiese, Massimiliano Ficarra, classe ’69, amministratore di fatto delle società, formalmente intestate a un prestanome, Pietro Genovese, classe ’55, nativo di Simeri Crichi (Catanzaro). Entrambi colpiti dal decreto di fermo in questione, dopo che nel 2018 il ristorante aveva chiuso i battenti a seguito di un’interdittiva antimafia.

Da qui la “macchia d’olio” si espandeva passando per Pravisano, il quale avrebbe messo a disposizione di Ficarra il suo know-how da funzionario di banca «fornendo – si apprende dalle carte – un costante contributo alla penetrazione dell’associazione mafiosa nel tessuto economico lombardo quale soggetto “pulito” da utilizzare per l’acquisizione di nuove commesse ed offrendo le sue imprese operanti nei settori dei servizi di pulizia e facchinaggio».

«Altri aspetti – dichiarava la dottoressa Dolci – sono l’offerta di protezione», quella che Pravisano riceverà, in cambio della spartizione di proventi illeciti da evasione fiscale, dal boss pregiudicato Bartolomeo Iaconis, in contesa con un altro “pezzo da novanta”, Giuseppe Larosa, per il controllo della locale di Fino Mornasco: «Alcuni imprenditori passano dalla protezione di una famiglia di ‘ndrangheta, ad un’altra famiglia… in questo caso abbiamo una protezione che viene fornita ad imprenditori che sono vittima di estorsione ad opera di un certo gruppo, e che ovviamente, stanchi delle vessazioni, si rivolgono ad altre famiglie che offrono a loro volta protezione ma, anche in questo caso, in cambio della collaborazione e dell’inserimento nei diversi settori dell’economia», e cioè in cambio del «know-how di questi imprenditori nel sistema cooperativistico».

L’imprenditoria è stata così lentamente, ma inesorabilmente, fagocitata dal sistema e dalle logiche mafiose.

Di una mafia che l’inchiesta Cavalli di razza fotografa in tutte le sue capacità criminali: dalle estorsioni (anche dell’ordine di 300-400.000 euro) alle frodi fiscali, dal controllo di bar e locali alle minacce («…non posso avere dubbi che tu mi conosci a me…»; «sai quanti siamo? Se loro sono 100 noi 200 non hai capito?»; «Lì ci sono io e si devono mettere tutti a pecorina»), fino al traffico di stupefacenti e armi con la Svizzera («Stanno bene in Svizzera, in Italia ci hanno rovinati. Lì non esiste il 416-bis»).

Tra i fermati vi erano anche i fratelli Attilio e Antonio Salerni, di Grisolia (Cosenza), accusati di aver minacciato i dirigenti di un’importante società produttrice di bevande gassate, nientemeno che la citata Spumador S.p.A., al fine di acquisire – scrivono i magistrati – «il controllo e la gestione delle commesse di trasporto “conto terzi” (delle bevande, ndr) per il tramite di Sea Trasporti», monopolista in quei servizi: solo la punta dell’iceberg di una “joint venture” ‘ndranghetista con le cosche Palmieri e Stillitano.

Colpito dal provvedimento di fermo anche Luciano De Lumè, classe ’56, ex consigliere comunale di Fino Mornasco. Politici e indagati fanno il paio anche nell’affare delle amministrative a Lomazzo del 2019: in occasione di alcuni eventi elettorali, il consigliere comunale comasco Antonio Tufano, non indagato, avrebbe contattato telefonicamente uno dei fermati, Giuseppe Valenzisi, classe ’90, di Como, col quale – secondo gli inquirenti – lo stesso Tufano avrebbe avuto «un legame solido», al punto di offrirsi di fare da “trait d’union” fra possibili candidati in cerca di voti e calabresi disposti a fornire loro appoggio.

Tra i nomi che spuntano nelle carte, quello dell’assessore del Comune di Lomazzo, Nicola Fusaro, quale possibile persona informata sui fatti. In particolare, per i suoi rapporti con Pravisano. «Occhio ad andare a minacciare Pravisano, perché c’è dietro la ‘ndrangheta […] sono loro i soci»: così dice l’assessore in un’intercettazione.

Alessandro Girardin
Studente del V anno di Giurisprudenza, perennemente scisso tra lo studio di codici e codicilli e l’indagine sui fatti del mondo, con l’aggravante di una grafomania para-giornalistica in stadio avanzato. Cerco nel mio piccolo, come osservatore e attivista - con tutti i miei limiti! -, di analizzare fenomeni di criminalità organizzata, malaffare e intrecci fra Stato, mafia e massoneria. In una parola, mi occupo del Potere.

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