Del: 18 Luglio 2022 Di: Michele Baboni Commenti: 0
Il diritto allo studio, l'università in carcere

Il diritto allo studio, che è da diversi anni al centro dei programmi elettorali delle liste studentesche e generalmente considerato una garanzia, rimane ancora oggi una strada impervia per alcune persone, tra cui quelle che popolano le diverse strutture penitenziarie in Italia.

Il carcere è notoriamente una realtà complessa, in cui molteplici fattori di disagio sociale ed economico si intrecciano a una serie di inefficienze del sistema penitenziario, come ad esempio le fatiscenti strutture e la scarsa tutela dei carcerati.

In un simile contesto, in cui spesso e volentieri viene sensibilmente ridotta la dignità umana dei reclusi, è logico che vengano meno quelle che dovrebbero essere le finalità del carcere, ovvero la rieducazione e il reinserimento sociale.

Secondo il rapporto sulle condizioni delle carceri italiane, pubblicato il 28 aprile dall’associazione Antigone, in Italia il tasso di recidiva carceraria è pari al 62%, una percentuale che indica chiaramente il fallimento della funzione formativa del nostro sistema penitenziario. Un altro dato rilevante del rapporto indica che circa il 45% della popolazione carceraria è al di sotto della soglia dei 40 anni di età, una fascia entro la quale rientrano moltissimi giovani, che potrebbero senza dubbio beneficiare della possibilità di intraprendere un percorso universitario. È dunque logico chiedersi se effettivamente sia garantita a tutti questa opportunità, senza discriminanti o differenze.

Giuridicamente parlando, l’insieme di norme che regolano nel dettaglio la vita nel carcere sono contenute nel d.P.R (decreto del Presidente della Repubblica) n.431/1976, che a sua volta è l’approvazione del regolamento di esecuzione della legge 354/1975. Nel regolamento originale del ‘75, i cenni allo studio sono presenti nell’art. 19, il quale affermava inizialmente che «è agevolato il compimento degli studi dei corsi universitari ed equiparati», un’affermazione sicuramente significativa ma insufficiente, poiché vaga ed eccessivamente discrezionale. Il decreto del ‘76 riafferma sostanzialmente questa agevolazione, aggiungendo a ciò l’esenzione dal lavoro per gli studenti, oltre che il rimborso delle spese sostenute per tasse e materiali didattici; infine, vengono menzionati dei “premi di rendimento” per gli studenti in condizioni economiche meno agevoli (art. 45, comma 4).

Il testo è stato però ripreso e modificato nel 2000, con il d.P.R n. 320/2000, un decreto teso a modificare le precedenti norme in materia penitenziaria; in questo documento, le modifiche alle disposizioni sugli studi universitari hanno disposto l’accesso degli studenti ai materiali didattici e l’accesso a spazi appositi per lo studio, assieme alla possibilità di tenere nella propria camera i manuali ed i libri di testo necessari allo studio (art. 44).

Pertanto, si potrebbe dire che il diritto allo studio nel contesto carcerario sia adeguatamente coperto e garantito, ma sfortunatamente la realtà dei fatti è diversa, specialmente per la difficile e problematica applicazione delle disposizioni in materia.

Bisogna infatti considerare diversi fattori in gioco, a partire dal fatto che le precedenti disposizioni si applichino nei contesti in cui ciò sia possibile, secondo la discrezione dei singoli istituti penitenziari; per fare un esempio, negli istituti penitenziari in cui c’è un problema significativo di sovraffollamento (nel 2020 la media italiana di sovraffollamento era del 107%, con istituti che superavano il 150%), è difficile immaginare che si riescano a garantire degli spazi appositi per lo studio, specie nelle strutture meno moderne. Inoltre, l’accesso alla carriera universitaria dipende soprattutto dai rapporti convenzionali che gli istituti singoli stringono con le varie università, da cui vengono istituiti i poli universitari penitenziari.

Attualmente, i poli universitari sono attivi solamente in 75 carceri su un totale di 190, il che implica che circa il 60% degli istituti carcerari italiani non garantisce l’accesso allo studio universitario.

Un altro aspetto non irrilevante è quello riguardante gli aiuti economici e i premi di rendimento, spesso non assegnati e non percepiti dagli studenti meritevoli.

In un simile contesto, in cui lo Stato non è sempre presente, risulta fondamentale la collaborazione tra le università e gli istituti carcerari, da cui nascono le iniziative di supporto e tutoraggio. L’istituzione dei diversi poli universitari è frutto di molteplici collaborazioni, che nascono spesso per una convergenza di interessi tra strutture detentive e singoli atenei. Si tratta dunque di realtà solo parzialmente coordinate dal CNUPP (Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari), nelle quali non è presente un protocollo uniforme a livello nazionale. Tuttavia, pur essendo delle istituzioni piuttosto diversificate, spesso producono dei progetti estremamente prolifici, spesso fondamentali per la buona riuscita degli studenti nel loro percorso accademico.

Un esempio di questo tipo di percorsi lo offre anche la Statale di Milano, con le diverse attività formative proposte nel “Progetto Carcere”, composto da una serie di laboratori didattici organizzati assieme ai penitenziari di Bollate, Opera e San Vittore, finalizzati a valorizzare l’interazione tra gli studenti in carcere e quelli provenienti dall’esterno. Il risultato è una serie di esperienze estremamente costruttive, tanto per i detenuti, che stringono un legame con persone nuove, tanto per gli studenti che vengono da fuori, che per la prima volta entrano in contatto con un contesto che in pochi conoscono realmente.

In sintesi, il percorso accademico delle persone in prigione è una strada in salita, in cui, tra le pagine dei libri, ognuno cerca di dare un senso e un ordine a un’esperienza tanto complessa e impegnativa, con una prospettiva su ciò che verrà dopo il carcere.

Si tratta di un percorso puramente individuale in cui l’impegno e la dedizione sono cruciali, ma che può essere arricchito dalle esperienze che gli atenei studiano per questi contesti.

Un dato sorprendente, che lascia ben sperare per il futuro, è il numero attuale di detenuti iscritti ad un corso universitario, 1246 nell’anno accademico 2021/2022. Attualmente, gli studenti carcerari rappresentano circa il 2.3% della popolazione carceraria totale (54.609 nel marzo del 2022), una percentuale di poco inferiore alla percentuale totale di universitari rispetto alla popolazione totale, che nel 2021 si attestava al 3%.

Tuttavia, ciò che realmente sorprende, specialmente se pensiamo alle statistiche generali sullo stato di salute del sistema scolastico in Italia, è che il numero di carcerati che intraprendono una carriera universitaria è in aumento: basti pensare che nello scorso anno accademico se ne registravano 1034, e che nel 2018 erano 796. Parliamo dunque di un aumento del 64% negli ultimi 3 anni accademici, una crescita che dimostra l’efficacia dell’impegno degli atenei in carcere. Le questioni su cui lavorare per rendere il diritto allo studio in carcere effettivo per tutti sono ancora molteplici, in particolare l’istituzione effettiva dei poli universitari in tutte le carceri italiane e gli aiuti economici per chi ne ha bisogno.

Ma, come già detto, i risultati stanno dando ragione alle università, in grado di farsi conoscere e di attrarre nuovi studenti in percorsi in grado di svoltare la loro vita, sia dentro che fuori dal carcere. In sintesi, parliamo di una realtà che, pur essendo forse acerba, getta delle ottime basi, che lasciano ben sperare per il futuro.

Michele Baboni
Studente di scienze politiche, sono appassionato di filosofia, politica e calcio. I temi che ho più a cuore sono i diritti civili e il cambiamento climatico, anche se l'attualità è sempre un punto di partenza stimolante per nuove riflessioni. La scrittura è il mezzo per allargare i miei orizzonti, la curiosità il vento che mi spinge alla ricerca incessante di nuove risposte.

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