Questo articolo è il primo di due sull’ascesa della criminalità mafiosa in Lombardia e in Brianza. Il secondo è consultabile al seguente link.
Sono passati 12 anni dall’inchiesta Crimine-Infinito, che il 13 luglio 2010 portò all’esecuzione di 160 misure cautelari in Lombardia, delle quali 55 solo in Brianza. Un’indagine che scosse alle fondamenta l’edificio «unitario» della ‘ndrangheta e la rete di relazioni e di illegalità intessuta silenziosamente dall’organizzazione criminale con la parte connivente della politica, dell’imprenditoria, delle libere professioni (la famigerata area grigia). Ma, soprattutto, un’indagine i cui risvolti processuali – con le sentenze di condanna inflitte dalla Cassazione con rito abbreviato nel 2014 e con rito ordinario nel 2015 – e, prima ancora, sostanziali – l’entrata in vigore nel 2011 del Codice delle leggi antimafia e il consolidamento dei presupposti per una spinta verso una “legalità diffusa” – avrebbero dovuto risvegliare le coscienze del mondo istituzionale e della società civile riguardo a un problema persistente anche nel laborioso Nord da tempo immemore.
La maggioranza della gente onesta avrebbe dovuto prendere posizione, “organizzarsi” contro una minoranza altrettanto “organizzata” ma decapitata dai blitz della Dda, per riappropriarsi attraverso i sani valori di convivenza civile dei propri territori flagellati dal traffico di droga, dal riciclaggio di denaro sporco, dalla corruzione. Purtroppo, così non è stato.
A distanza di 12 anni, la Lombardia continua ad essere un ambiente ideale per gli affari della ‘ndrangheta.
E ciò sia per la convenienza che ancora rappresenta per una parte della classe dirigente poter contare sui rapporti con una criminalità organizzata apportatrice di voti, di capitali, di protezione; sia per il clima di omertà di cui i mafiosi e i loro fiancheggiatori possono godere nel consesso dei piccoli Comuni lombardi, non meno degno di quello che si respira in una Limbadi o in una Platì.
È sempre importante, in ogni caso, contestualizzare il tema a partire dalle origini. La ‘ndrangheta è presente in Lombardia almeno dalla metà degli anni ’50, per effetto sia delle massicce ondate migratorie negli anni del boom economico, sia del moltiplicarsi di provvedimenti in forza dei quali i tribunali di sorveglianza spediscono nel Settentrione diversi boss in soggiorno obbligato. Il fatto è che insieme a loro comincia ben presto a giungere nelle piccole e grandi città del Nord tutto un entourage di familiari e uomini di fiducia, un corredo di uomini e mezzi che, nel tempo, consente ai capimafia di “clonare” nelle regioni del Nord Italia quella struttura organizzativa e quel retaggio familistico che la connotavano nei paesi calabresi di provenienza.
Nel ’67 approda a Lecco Franco Coco, noto dal ’91 in poi – in seguito a un riconoscimento di paternità – come Franco Coco Trovato. Il quale porta con sé, naturalmente, trapiantandole nel territorio lombardo, le attività criminali tipiche del suo gruppo di appartenenza: rapine, furti, truffe, estorsioni, traffico di armi, falsificazione di banconote, sequestri di persona – reati commessi perlopiù nei territori del Comasco e del Varesotto, insieme ad altri esponenti della ‘ndrangheta locale.
Il boss di Marcedusa non tarda a replicare gli stessi schemi di alleanze invalsi nel Sud anche con le famiglie di boss ‘ndranghetisti trapiantati al Nord: fra questi, Giuseppe “Pepè” Flachi detto il boss della Comasina, i fratelli Domenico, Rocco e Antonio Papalia e le famiglie Barbaro, Sergi-Morabito-Paviglianiti e Zagari. Proprio Giacomo Zagari, padrino della provincia di Varese legato a doppio filo con Franco Coco, diventa il ‘basista’ delle principali operazioni illecite delle cosche, e la sua casa a Buguggiate si trasforma in un rifugio per i latitanti – così racconterà nel ’92 agli inquirenti il pentito Antonio Zagari, figlio del boss.
Anche il periodo storico di riferimento è di per sé simbolico.
Il 1969 è un anno di svolta per la ‘ndrangheta: a ottobre i maggiorenti delle famiglie del reggino si riuniscono nel famoso summit di Montalto, interrotto grazie a una soffiata dalla provvidenziale irruzione delle forze di polizia guidate dal commissario Alberto Sabatino. Il processo di ascesa dell’organizzazione criminale, però, è ben lungi dall’arrestarsi. La mano dei clan calabresi si intravede dietro alla strage di Gioia Tauro del 22 luglio 1970 e ai successivi Moti di Reggio. Sempre nel ’70 la ‘ndrangheta entra in contatto con gli ambienti della Destra eversiva partecipando come braccio armato al fallito golpe Borghese la notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970.
A metà degli anni ’70 viene istituita una nuova “dote” della società maggiore, la Santa, che consente agli ‘ndranghetisti di fregiarsi anche dell’affiliazione alle logge massoniche deviate. E che si traduce quindi, per gli “iniziati”, nella possibilità di intrattenere un dialogo con le alte sfere del potere politico-istituzionale. La strada così imboccata porta dritto alla prima guerra di ‘ndrangheta (1974-1977), che vede l’eliminazione della vecchia guardia (in primis i due “capi dei capi” ‘Ntoni Macrì e Mico Tripodo) e l’affermazione definitiva dei De Stefano-Tegano-Libri di Reggio Calabria, alleati coi Piromalli di Gioia Tauro e i Pesce di Rosarno, e contrapposti agli Imerti-Condello-Serraino nella seconda guerra di ‘ndrangheta (1985-1991).
È in questa temperie che nel ’76 viene istituito un collegio denominato “camera di passaggio”, con il compito specifico di accreditare le locali venutesi via via a creare in Lombardia presso il “Crimine” – ossia la struttura sovraordinata ai tre mandamenti principali (Jonico, Tirrenico e Città), il cui punto di riferimento, luogo delle tipiche riunioni annuali dei capimandamento, è il Santuario della Madonna di Polsi, nei pressi di San Luca. Secondo le dichiarazioni del pentito Saverio Morabito, il primo esperimento di una “camera di controllo” delle locali lombarde risalirebbe al 1984; seguirà il tentativo da parte della ‘ndrina Mazzaferro di scindere la Lombardia dalla Calabria, finito nel nulla per via del sopravvento, nel ’94, dell’inchiesta I fiori della Notte di San Vito.
Solo nel 2014, con la sentenza definitiva del processo in rito abbreviato scaturito dall’operazione Crimine-Infinito del luglio 2010, verrà riconosciuto il concetto dell’unitarietà della ‘ndrangheta quale organizzazione retta gerarchicamente da una Provincia – “la Lombardia” – che svolge per le locali della Regione la stessa funzione assolta dal Crimine per quelle calabresi.
E proprio nel 2010 l’esistenza della ‘ndrangheta viene riconosciuta anche a livello normativo, venendo ricompresa nel reato di associazione mafiosa di cui al 416-bis c.p. (d.l. 4 febbraio 2010 n. 4, convertito nella l. 31 marzo 2010 n. 50).
«Un locale è forte se ha le sue radici in Calabria… Chi non ha questo cordone ombelicale non ha forza, un locale che non ha questo è come una zattera nell’oceano, non siete su una nave» (Antonino Belnome, ex capo-locale di Giussano e super-pentito della ‘ndrangheta nell’ambito del processo Crimine-Infinito).
In questo contesto e periodo storico, anche in Brianza si manifestano le prime avvisaglie dell’operatività della criminalità mafiosa sul territorio. A cominciare dall’omicidio di Giuseppe Zampaglione, consumato il 21 maggio 1972 a Muggiò con quattro colpi di pistola per mano di Giuseppe Malaspina, nativo di Montebello Jonico, all’epoca appena 19enne. Condannato nel ’76 a 14 anni di reclusione, sarà ammesso alla liberazione condizionale grazie a un indulto nell’81. Il movente, secondo gli investigatori, risiederebbe in una confidenza fatta da Zampaglione ai Carabinieri riguardo a una rapina a una gioielleria perpetrata da Malaspina e dal suo complice Carmelo D’Amico. Quest’ultimo verrà ucciso con il figlio Antonio, affiancato a un semaforo da un commando di killer, nella periferia di Vimercate.
È il 27 giugno 1989, e in Brianza imperversa una guerra senza quartiere sugli appalti: dilagano faide e attentati fra imprenditori interessati ad accaparrarsi gli ingenti fondi comunitari destinati al settore edile. Una situazione che vede le cosche partecipare spesso e volentieri a vere e proprie “incursioni militari” contro questo o quel costruttore su ordine della famiglia rivale di turno.
Carmelo D’Amico, in particolare, è parente e socio della famiglia Miriadi in una delle decine di società facenti capo ad essa, la Edilsulcis, amministrata da Giovanni Tripodi, il quale morirà il 4 maggio 1990 a Vimercate, nella frazione Oreno, crivellato dai colpi di un kalashnikov nella propria auto assieme al cugino Assunto Miriadi (nipote di D’Amico). Una scia di sangue che si trascina per circa un anno, passando per il rinvenimento, il 21 settembre ’89, a Canonica di Triuggio, di un corpo carbonizzato all’interno di una Mercedes intestata a un’altra società edile della galassia dei Miriadi, la Camis. Il cadavere è quello di Antonino Romeo, pregiudicato, dipendente della stessa Camis. Fatti su cui ben presto si concentrano i radar degli investigatori, alla ricerca di un filo rosso dietro alle tante vittime del “racket degli appalti”.
Risale invece al dicembre ’89 l’agguato ai danni dei fratelli Salvatore, Annunziato e Antonino Lugarà, all’uscita di un ristorante a Seregno. I tre sono in rapporti d’affari con i Miriadi. Appena saliti sulla loro Bmw, sono affiancati da un’auto che li investe con una raffica di proiettili. Solo rispondendo al fuoco, con pistole regolarmente denunciate, i fratelli Lugarà riescono a mettere in fuga i sicari.