Del: 19 Luglio 2022 Di: Alessandro Girardin Commenti: 0
Misteri e depistaggi a 30 anni dalla strage di via d’Amelio

Due prescrizioni e un’assoluzione “perché il fatto non costituisce reato”. Non poteva essere più deludente il dispositivo della sentenza di primo grado emessa lo scorso 12 luglio dal Tribunale di Caltanissetta all’esito del lungo e funestato processo sul depistaggio delle prime indagini sulla strage di via d’Amelio, in cui morirono per mano di mafia e di pezzi deviati dello Stato il magistrato Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta Agostino Catalano, Claudio Traina, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, e di cui unico superstite fu l’agente Antonino Vullo.

Alla sbarra erano stati condotti, il 5 novembre di quattro anni fa, Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, i tre ex poliziotti della Squadra Mobile di Palermo guidata dal prefetto Arnaldo La Barbera (deceduto nel 2002), imputati di calunnia per aver indotto quello è stato definito un semplice «balordo della Guadagna», Vincenzo Scarantino, ad accusare falsamente degli innocenti che sarebbero stati poi condannati all’ergastolo per quei fatti.

A beffardo “coronamento” della commemorazione del trentennale della strage del 19 luglio 1992, il collegio presieduto da Francesco d’Arrigo ha escluso la configurabilità dell’aggravante mafiosa in capo ai tre imputati, ritenendo non vi fosse stato alcun intento da parte di costoro di favorire Cosa Nostra.

Di conseguenza, Bo e Mattei, pur riconosciuti consapevoli della falsità delle dichiarazioni “imbeccate” a Scarantino e poi fatte confluire nei verbali d’interrogatorio, sono stati dichiarati prescritti, mentre Ribaudo è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato”.

Sono state così smentite la ricostruzione e qualificazione giuridica dei fatti operate dalla Procura nissena, che – pur tenendo ferma l’assoluzione dall’accusa di calunnia aggravata pronunciata nei confronti degli ex pm di Caltanissetta Carmelo Petralia e Annamaria Palma – nella requisitoria aveva parlato di “depistaggio inaudito” e chiesto pene altissime nei confronti degli imputati. Un epilogo, quello della sentenza del Tribunale di Caltanissetta, che – anche a prescindere da quello che sarà il contenuto delle motivazioni – pare contraddetto fin sul nascere dalla sentenza definitiva del processo Borsellino quater. Con la quale il 5 ottobre 2021 la Suprema Corte di Cassazione ha confermato le condanne all’ergastolo per la strage di via d’Amelio nei confronti dei boss palermitani Salvatore Madonia e Vittorio Tutino (e, rispettivamente, a 10 anni e 9 anni e 6 mesi per calunnia nei confronti dei falsi pentiti Calogero Pulci e Francesco Andriotta). E consacrato con i crismi del giudicato una serie incontrovertibile di elementi di fatto e di diritto relativi alle tante “incongruenze” e “anomalie” riscontrate dagli investigatori nelle fasi successive al depistaggio dietro a taluni gravi accadimenti antecedenti e concomitanti a quella strage.

È infatti in quella stessa sentenza che, a proposito delle anomalie rilevate nel «modus procedendi degli “inquirenti suggeritori”», la Cassazione parla di «abnormi inquinamenti delle prove che hanno condotto a plurime condanne di innocenti». Non mancando di sottolineare, sulla scorta delle motivazioni della sentenza della Corte d’assise d’appello di Caltanissetta del novembre 2019 (oggetto d’impugnazione), la centralità della figura di Vincenzo Scarantino, «nei cui confronti gli elementi di prova raccolti hanno condotto i giudici di merito ad accertare “l’insorgenza di un proposito criminoso determinato essenzialmente dall’attività degli investigatori, i quali esercitarono in modo distorto i loro poteri con il compimento di una serie di forzature, tradottesi anche in indebite suggestioni”».

Ma il depistaggio investigativo costituisce soltanto l’“ultimo atto” di una compartecipazione istituzionale al progetto egemonico e sovversivo di matrice mafiosa

che trova spiegazione nella necessità sempre più sentita in quel 1992 in cospicui settori del potere ufficiale – e, dunque, anche in quelli governativo-ministeriali – di liberarsi dell’“ostacolo” che Paolo Borsellino avrebbe rappresentato – e già rappresentava – in vita a tutte quelle inconfessabili trame occulte che lo Stato, in special modo nella forme della Trattativa, andava intessendo con la mafia. Quel perverso quanto scellerato gioco di do ut des volto a soddisfare le pretese mafiose (abrogazione dell’ergastolo, cancellazione del 41-bis introdotto con d.l. subito dopo la strage di Capaci, assimilazione del regime dei pentiti di mafia ai terroristi rossi “dissociati”, ecc.) in cambio della desistenza dal proposito delle stragi o dalla commissione di nuove.

In tal senso, pur senza negare la «paternità mafiosa» dell’attentato di via d’Amelio nonché la sua piena «riconducibilità alla “strategia stragista” deliberata da Cosa Nostra, prima di tutto come “risposta” all’esito del maxi processo», nella sentenza definitiva del Borsellino quater gli ermellini non hanno potuto fare a meno di riconoscere come «i dati probatori relativi alle “zone d’ombra”» che ancora si addensano intorno a quella strage non escludano – ed anzi rafforzino – la tesi della «presenza di altri soggetti o di gruppi di potere (co)-interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino».

Il riferimento è, quindi, a quelle non più occultabili convergenze di interessi tra Cosa Nostra e componenti «esterne» all’organizzazione mafiosa che hanno concorso all’accelerazione dell’ecatombe mafiosa (e di Stato) con finalità destabilizzatrice in cui doveva morire – poiché la “condanna a morte” era già stata deliberata – il giudice Borsellino. Parlano in questo senso, fra i tanti elementi, l’appurato coinvolgimento nelle fasi di concepimento ed esecuzione della strage di uomini dei servizi segreti – almeno uno dei quali presente insieme a Gaspare Spatuzza e ad Aldo Ercolano nel garage in cui l’ordigno inserito nella Fiat 126 fu cablato e un altro sicuramente presente in via d’Amelio poco dopo l’esplosione – nonché la circostanza del misterioso trafugamento dell’agenda rossa dall’auto del magistrato ucciso ancora in fiamme.

Proprio per questo, i motivi e i moventi di una tale efferata esecuzione sono da ricercarsi nientemeno che negli ultimi 57 giorni di vita di Paolo Borsellino: quelli, cioè, successivi all’eccidio di Capaci del 23 maggio 1992 in cui morì il suo collega e amico Giovanni Falcone.

Due fatidici mesi di un annus horribilis sui quali molti sono ancora, dopo trent’anni, i misteri e gli interrogativi in attesa di risposta.

In primo luogo, Paolo Borsellino era l’unico ad avere conoscenza diretta del contenuto dei diari informatici di Falcone. Quei diari Diari che, in concomitanza con la strage di Capaci, una mano ignota rimosse dal suo pc mediante una manomissione dei file. Borsellino aveva chiesto con insistenza di essere applicato alla Procura di Caltanissetta per contribuire all’inchiesta con il proprio patrimonio conoscitivo. Si era detto disponibile persino a testimoniare, nel caso in cui non fosse stato nominato procuratore aggiunto. Ma, inspiegabilmente, in quei 57 giorni i magistrati nisseni non l’avevano mai convocato.

Né si conoscono le ragioni che indussero alla fine di maggio del ’92 il ministro dell’Interno Vincenzo Scotti, di concerto col ministro della Giustizia Claudio Martelli, a proporre la riapertura i termini per la presentazione delle candidature al ruolo di Procuratore nazionale antimafia, indicando come candidato “del governo” all’organo apicale di investigazione e contrasto alle mafie proprio Paolo Borsellino. Con l’effetto – magari indesiderato, ma comunque rivelatosi deleterio – di sovraesporre un magistrato che si sapeva Cosa Nostra avesse designato come proprio nemico giurato dopo Falcone.

È del pari ignoto il motivo per cui il questore di Palermo, nonostante gli allarmi della Prefettura e le ripetute sollecitazioni del caposcorta di Borsellino, Agostino Catalano, non abbia mai emanato un provvedimento che disponesse la rimozione delle auto parcheggiate in via d’Amelio, dove Borsellino andava quasi tutte le domeniche a trovare la madre. Né era bastato il rinvenimento, ai primi di giugno, di una serie di cunicoli di recente utilizzo sotto il manto stradale della via da parte degli agenti della Mobile. Ma le anomalie non finiscono qui.

Accesi e tutt’altro che sporadici furono i dissapori – talora vere e proprie sfuriate – tra Paolo Borsellino, aggiunto alla Procura di Palermo, e il procuratore capo Pietro Giammanco, suo superiore (deceduto nel 2018).

Anche a quei pochi colleghi fidati coi quali conferiva, Borsellino lamentò gli intralci che Giammanco andava frapponendo nella sua attività d’indagine. Come quando ai primi di giugno gli concesse, salvo poi revocarla all’ultimo, l’autorizzazione alla rogatoria per interrogare il pentito Tommaso Buscetta sui rapporti tra mafia e politica (interrogatorio che si sarebbe svolto molti mesi più tardi, quando Paolo Borsellino era già morto e il procuratore di Palermo era Gian Carlo Caselli). O quando negò a Borsellino, senza nemmeno consultarlo, la possibilità di interrogare il pentito Gaspare Mutolo, affidando il relativo fascicolo ad altri magistrati, nonostante l’esplicita richiesta dell’ex killer e braccio destro del boss Saro Riccobono di essere sentito proprio da Borsellino. O, ancora, quando lo stesso Giammanco tergiversò nel conferire a Borsellino – che con i suoi poteri avrebbe potuto investigare solo sulle cosche di Trapani e Agrigento – la delega ad occuparsi delle indagini su Cosa Nostra palermitana. Delega che sarebbe arrivata solo alle 7 del mattino, con una chiamata insolita e stranamente “informale” a casa Borsellino, il giorno stesso dell’eccidio di via d’Amelio.

Per non parlare dell’ingiustificabile omissione di cui il procuratore Giammanco si macchiò nel tacere a Borsellino che un’informativa del Ros dei Carabinieri, giunta nella segreteria della procura intorno alla metà di giugno, avvertiva dell’esistenza di un progetto di attentato mafioso nei suoi confronti. Una circostanza che Paolo avrebbe appreso solo il 28 giugno, mentre si trovava con la moglie all’aeroporto di Fiumicino, dal ministro della Difesa Salvo Andò. Al quale non poté che confessare con imbarazzo di essere del tutto all’oscuro dell’informativa. Ne sarebbe seguito, all’indomani, un furente litigio con Giammanco: «Lo so bene che da una minaccia ci si può difendere ben poco, ma è mio diritto conoscere tutte le notizie che mi riguardano», avrebbe urlato Paolo, sferrando un pugno sul tavolo e ferendosi alla mano.

Fonte di opacità è anche l’incontro che Borsellino avrebbe avuto nella caserma di Carini, il pomeriggio del 25 giugno 1992, con i vertici del Ros: il comandante del reparto criminalità organizzata Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno. Il magistrato – stando alla testimonianza resa dai due ufficiali ai pm di Caltanissetta nel 1998 – aveva chiesto di vederli «fuori dalla procura» per motivi di riservatezza. In quel colloquio – talmente “segreto” da non essere stato nemmeno appuntato da Borsellino nella sua agenda grigia – si sarebbe parlato della vicenda mafia-appalti, la pista d’indagine già seguita dall’amico Giovanni Falcone, nell’ambito della quale Borsellino avrebbe affidato a Mori e De Donno un delicato incarico investigativo.

Quel che Borsellino non sapeva era che, pochi giorni prima di quel 25 giugno, il capitano De Donno aveva avviato il primo atto della «trattativa» – come la definirà lo stesso comandante Mori – con l’ex sindaco di Palermo condannato per mafia, Vito Ciancimino, per la cattura del boss Salvatore Riina. Il quale Riina, una volta venuto a sapere tramite il medico Antonino Cinà, suo informatore, che le richieste di Cosa Nostra allo Stato erano state giudicate “troppo alte”, fu persuaso – come sostenuto da pubblici ministeri del calibro di Nino Di Matteo e Luca Tescaroli – «dell’idoneità dell’azione stragista a raggiungere l’obiettivo di aprire nuovi canali relazionali, capaci di individuare nuovi referenti politico-istituzionali» (L. Tescaroli, Perché fu ucciso Giovanni Falcone, Rubbettino, 2000). Fu persuaso, cioè, del fatto che la strategia stragista «pagasse», e che quindi «era conveniente intraprendere una nuova azione stragista, affrettando il piano sanguinario di via d’Amelio» (G. Lo Bianco, S. Rizza, L’agenda rossa di Paolo Borsellino, Chiarelettere, 2007). «Fare la guerra per poi fare la pace», come disse il “capo dei capi” ai propri fedelissimi.

Sono poi note le dichiarazioni rese da Agnese Piraino Leto, moglie di Paolo, nell’ambito del processo Borsellino ter sulle parole riferitele dal marito riguardo alla sua consapevolezza di aver «capito tutto» sulla strage di Capaci.

Per questa ragione, per il fatto cioè che fosse a conoscenza di certe verità che era interesse di tutte le parti coinvolte insabbiare o comunque tenere nascoste, Paolo – queste le parole di Agnese – «aspettava di morire da un momento all’altro. Mi diceva: mi uccideranno, ma mi diceva anche: non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno i mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri».

Intanto Borsellino, insieme al collega Vittorio Aliquò e al questore Antonio Manganelli, cominciava a mettere a verbale le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Leonardo Messina sul «sistema criminale» che univa mafia, politica, massoneria e mondo degli appalti, sul ruolo che in quest’ultimo rivestiva il ministro dei Lavori pubblici della Regione Sicilia Angelo Siino, sugli appoggi di cui Cosa Nostra godeva nel gruppo Ferruzzi. Grazie all’aiuto di colleghi come il pm Antonio Ingroia e lo stesso Aliquò, Borsellino riuscì a superare il “veto” di Giammanco per ascoltare le dichiarazioni del pentito Gaspare Mutolo a proposito delle collusioni con la mafia di importanti uomini delle istituzioni e alti funzionari dello Stato: tra questi, spiccavano i nomi del giudice Domenico Signorino e del numero uno del Sisde Bruno Contrada. Quel Contrada che Borsellino confidò a Mutolo – ma non ad altri suoi colleghi, che dunque non lo possono confermare con analoga certezza – di aver incontrato al Viminale il 1° luglio ’92, giorno dell’insediamento del nuovo ministro dell’Interno Nicola Mancino (l’uomo dei tanti «non ricordo»). Interrogatori, incontri, colloqui che non fecero che aumentare i rischi per l’incolumità di un magistrato che, al netto della sua proverbiale incorruttibilità, ormai “sapeva troppo”.

Nella prima metà di luglio si infuoca il dibattito politico e mediatico sul «Super decreto» antimafia voluto da Martelli e ancora in attesa di conversione: Cosa Nostra è in fibrillazione, deve agire al più presto prima che le nuove misure di contrasto alla criminalità mafiosa entrino definitivamente in vigore. E qui veniamo a quel 13 luglio in cui un agente della scorta, vedendo Paolo Borsellino particolarmente turbato, sbiancò quando apprese dal magistrato che a Palermo era già arrivato il tritolo per lui.

A questi ed altri misteri si assomma poi, ancora una volta, la testimonianza della moglie Agnese, che nel corso dei processi menzionò la volta in cui vide Paolo sconvolto dopo aver appreso che il generale del Ros Antonio Subranni era «punciutu» (ossia “affiliato” a Cosa Nostra). Nonché quella di Mutolo nel rievocare l’episodio in cui Borsellino, di ritorno da Roma dopo un colloquio avuto in ambienti ministeriali, fosse talmente scosso dal peso di certe rivelazioni che, accesosi contemporaneamente due sigarette, aveva cominciato a fumare la seconda prima ancora di finire la prima.

Ma l’apice delle anomalie è raggiunto dalla mai chiarita sparizione dell’agenda rossa dal sedile posteriore dell’auto di Paolo Borsellino ancora fumante nei minuti successivi all’esplosione in via d’Amelio.

Quella che Agnese definì, nel processo Borsellino ter, la «famosa» agenda rossa, «perché era un’agenda che lui non lasciava mai, portava sempre con sé e segnava tutto: incontri, impegni di lavoro; però quest’agenda non si trova». Nonostante vi sia la certezza che anche quella domenica 19 luglio Paolo la tenesse nella propria borsa marrone. Quella borsa che, in un filmato girato in mezzo al fumo, alle macerie dei palazzi sventrati e ai brandelli di carne carbonizzati, appare nelle mani del colonnello dei carabinieri Giovanni Arcangioli, il quale fu indagato proprio per la sottrazione dell’agenda ma in seguito prosciolto “per non avere commesso il fatto”. L’ultima volta che quella borsa venne avvistata fu nell’ufficio del capo della Squadra Mobile Arnaldo La Barbera, dove fu portata dall’agente della Polizia di Stato Francesco Paolo Maggi (che avrebbe stilato la relazione di servizio sull’accaduto soltanto cinque mesi dopo).

Allo stesso modo, non si è ancora fatta luce sulle dinamiche del prelevamento della borsa e, con essa, dell’agenda rossa di Paolo Borsellino. La parola è quindi passata a chi fu tra i primi a giungere in via d’Amelio a ridosso dell’esplosione, ossia il magistrato Giuseppe Ayala. Il quale, nel corso delle proprie audizioni testimoniali nei processi sulla strage, ha cambiato versione in ben tre occasioni. Secondo la sua deposizione iniziale, risalente all’aprile del 1998, a prelevare la borsa marrone di Borsellino dal sedile posteriore sarebbe stato un ufficiale dei carabinieri, che avrebbe poi chiesto ad Ayala di prenderla in mano, incontrando il suo rifiuto. Tuttavia, quattro mesi dopo, nel luglio del ’98, Ayala affermava di non essere sicuro che quell’uomo fosse un ufficiale dei carabinieri, pur rammentando che avesse una divisa. Ma ecco che, nel settembre del 2005, arriva la svolta: Ayala dichiara di aver prelevato personalmente la borsa dal sedile posteriore dell’auto, aggiungendo di averla poi consegnata a un ufficiale dei carabinieri ed escludendo in toto che questi possa avergliela consegnata. Nel febbraio dell’anno successivo, però, il testimone “ritratta” di nuovo, asserendo che un uomo (non si sa se in divisa oppure no) avesse prelevato la borsa e l’avesse consegnata a lui, che a sua volta l’affidò a un ufficiale dei carabinieri in divisa che si trovava nei pressi dell’auto. Versione su cui gettano luci ed ombre le ulteriori deposizioni rese nel 2013, nell’ambito del Borsellino quater, dallo stesso Ayala e dal suo agente di scorta, il carabiniere Rosario Farinella, il quale dichiarò che al momento del prelevamento della borsa marrone questa era perfettamente integra e che l’uomo al quale Ayala gli avrebbe chiesto di consegnarla non recava alcun distintivo delle forze dell’ordine.

Ad oggi, nessuno è in grado di stabilire dove si trovi l’agenda rossa di Paolo Borsellino. Si è arrivati persino a ipotizzare – sulla scorta di alcune dichiarazioni, invero prive di riscontri, rilasciate alla stampa e alla magistratura da Salvatore Baiardo, il gelataio che favorì la latitanza dei fratelli Graviano – che ne esistano più copie, di cui una in mano alla mafia e una custodita nel cassetto di qualche divisione dei servizi segreti italiani.

Quel ch’è certo è che essa costituisce tuttora uno strumento di “ricatto” di cui il potere mafioso, politico-istituzionale e della massoneria deviata si avvalgono per minacciare ai propri nemici la divulgazione di nomi, circostanze, accadimenti in essa annotati.

Nomi che, se rivelati, farebbero senza dubbio tremare palazzi, crollare governi, aprire inchieste infinite sulla “girandola” di collusioni e connivenze con la criminalità mafiosa che tuttora vengono coltivate all’interno degli apparati dello Stato.

Resta perciò ancora irrisolta la questione dei cosiddetti «mandanti esterni» della strage del 19 luglio di trent’anni fa: quella, cioè, dei responsabili istituzionali dai quali provenne l’ordine di eliminare Paolo Borsellino. A maggior ragione dopo il rigetto della richiesta di archiviazione dell’indagine condotta dalla Procura di Caltanissetta da parte del gip Graziella Luparello lo scorso maggio.

È uno spiraglio che resta aperto, ma la strada da percorrere è ancora lunga. Del resto, è perfettamente “normale” che in una repubblica come la nostra, bagnata dal sangue delle stragi, si facciano processi e si accertino verità storiche, senza che però venga fatta giustizia fino in fondo.

Alessandro Girardin
Studente del V anno di Giurisprudenza, perennemente scisso tra lo studio di codici e codicilli e l’indagine sui fatti del mondo, con l’aggravante di una grafomania para-giornalistica in stadio avanzato. Cerco nel mio piccolo, come osservatore e attivista - con tutti i miei limiti! -, di analizzare fenomeni di criminalità organizzata, malaffare e intrecci fra Stato, mafia e massoneria. In una parola, mi occupo del Potere.

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