
Dal 16 al 18 settembre si è tenuto presso Mare Culturale Urbano il festival di Iconografie, rivista indipendente di cultura e attualità con uno spiccato sguardo sull’interpretazione e l’approfondimento del mondo contemporaneo. In occasione del panel del sabato pomeriggio il tema affrontato è stato quello del ruolo della Cina all’interno degli equilibri asiatici e internazionali, in vista anche del ventesimo Congresso del Partito Comunista Cinese che avrà luogo il prossimo 16 ottobre, e che con ottime probabilità vedrà la riconferma di Xi Jinping alla segreteria generale del partito per il suo terzo mandato. L’argomento è stato trattato da vari esperti provenienti da diverse realtà, come Simone Pieranni (Chora Media), Guido Alberto Casanova (ISPI) e Lucrezia Goldin (China Files).

Il punto di partenza del dibattito è stata la molto discussa ipotesi secondo la quale il secolo che ci attende e nel quale siamo immersi possa a tutti gli effetti essere definito come il secolo asiatico.
Il XXI secolo vedrebbe dunque un capovolgimento di egemonia del mondo da ovest a est, con una guida sostanzialmente cinese. Tale scenario può essere facilmente predetto e ipotizzato dal momento in cui in Cina ormai da diversi anni sta vivendo in maniera continuativa un allineamento di tre fattori fondamentali favorevoli a un’ascesa globale come la grande crescita economica, demografica e militare.
A tal proposito, sul piano interno si è partiti dalla constatazione del sostanziale successo del patto sociale cinese ormai avviato da più di 70 anni. Esso infatti ha concretamente portato circa 800 milioni di cinesi al di fuori della soglia di povertà dalla seconda guerra mondiale a oggi (i dati affermano che circa il 70% della riduzione della povertà a livello globale degli ultimi anni appartiene proprio alla realtà cinese). Si tratta senza dubbio di uno dei capisaldi del consenso e della compattezza che riscuote il PCC nell’opinione pubblica; quest’ultima in larga parte riconosce collettivamente i progressi fatti nel tema dell’accesso ai bisogni primari e ciò porta, anche all’interno dell’area del dissenso, piuttosto raramente a mettere in discussione l’operato governativo sotto questo punto di vista e i relativi mezzi utilizzati per il perseguimento di tali scopi.
Allo stesso modo non si può fare a meno di menzionare un altro tema fondamentale che contraddistingue il metodo e la gestione del potere presente nel modello cinese e che permette alla Cina di godere di un sostanziale distacco di prestazione a livello internazionale.
Si tratta infatti del dominio totale sul piano tecnologico, a livello di produzione, investimenti e possesso di brevetti ma anche per quanto riguarda l’ambito fondamentale di possesso e controllo di dati per il monitoraggio di internet e del suo utilizzo.
Lo stato cinese infatti mantiene un controllo integrale su ciò che accade nel web e su come questo strumento venga usato dalla popolazione cinese, che è di fatto iperconnessa. Oltre al fatto che la Cina di fatto possiede una realtà virtuale riguardante l’utilizzo di internet che si può definire chiusa, ovvero dove non è possibile che elementi esterni interferiscano o semplicemente entrino all’interno del sistema di internet cinese, l’enorme quantità di dati posseduti dal governo impedisce l’attivismo sui social e permette un intervento diretto sul funzionamento degli algoritmi.
Viene garantita così una grande sorveglianza dei contenuti e più in generale di ciò che accade in internet, con una particolare attenzione ai social network in chiave anti dissenso. Tutto ciò avviene in una maniera così tanto precisa e puntuale a tal punto che il diritto fondamentale della libertà di parola sul web viene spesso inteso e presentato come “privilegio di parola”.
Da un punto di vista internazionale invece, la repubblica Popolare Cinese è proiettata senza dubbio verso un’egemonia di tipo particolare, che attiene maggiormente al dominio e al controllo economico piuttosto che all’influenza culturale e dei costumi. È infatti noto come la Cina non abbia ad oggi alcun tipo di influenza sul piano del cosiddetto soft power, ovvero quell’ambito tramite il quale una grande potenza è in grado di persuadere internazionalmente su vari piani senza alcun ausilio coercitivo ma con l’esportazione di valori e riferimenti culturali appartenenti a un universo alternativo, garantendosi così un’ottima base per l’obiettivo di espansione della propria influenza e di accettazione esterna.
Isolare la Cina è e diventerà quindi sempre più difficile, a partire ad esempio dal fatto che a livello locale all’interno della regione asiatica il mercato cinese è ritenuto come centrale e fondamentale.
Da esso infatti dipendono in primis le economie di paesi con sistemi politici e riferimenti differenti come le democrazie liberali di Giappone e Corea del Sud che, pur percependo la Cina come una costante minaccia, sono di fatto costrette a convivere col gigante cinese per importanti questioni economiche e di scambi commerciali.
A livello politico poi non si può far altro che prevedere una maggiore influenza della Cina nelle questioni internazionali, principalmente per due ragioni che sono sotto gli occhi di tutti, da una parte le tensioni sulla questione di Taiwan fra USA e Cina e dall’altra un ruolo di sorveglianza e attenzione alle relazioni globali con l’acuirsi della polarizzazione fra Occidente e Oriente a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina.