«Parlare la stessa lingua», come un eufemismo che sottintende la volontà di abbracciare la diversità e la profonda condivisione degli stessi valori, risulta essere una strategia vincente per dei brand che desiderano conquistare il mondo.
Che il mondo sia bello perché vario lo coglie eccellentemente Ikea che si adatta alle diversità culturali che caratterizzano il suo target internazionale e conseguentemente propone due cataloghi che differiscono in Danimarca e Cina: l’ambiente del gioco comprende due fratelli nel primo, nell’altro invece compare un figlio unico. La ragione è presto rintracciabile nelle politiche sulle nascite presenti in Cina, note per la loro spiccata restrittività, assente invece in terra danese.
I brand che operano sulla scia del fenomeno della globalizzazione sono chiamati infatti a decidere se procedere con la standardizzazione della propria strategia di marketing, confezionandone una che possa ammiccare a più culture, oppure optare per un adattamento della stessa a seconda del contesto di riferimento, dunque una strategia di marketing cross-culturale.
In effetti, il marketing cross-culturale considera e valorizza le specificità nazionali di ogni Paese in cui l’azienda agisce, perciò prevede la diversificazione delle campagne di marketing in base alle varie tradizioni, usanze, credenze, simboli, valori e comportamenti.
Dunque, nel momento in cui un business decida di intraprendere la strada del marketing cross-culturale dovrà confrontarsi con il consumatore osservandolo attraverso la lente di questa entità complessa che è la cultura.
Quest’ultima è di difficile definizione, rappresentando un fattore dinamico, in costante cambiamento e arduo da inquadrare e delineare. Tuttavia, gli studi del Professore olandese Hofstede hanno fornito dei parametri di riferimento che risultano essere uno strumento essenziale per il marketing cross-culturale, poiché consentono di misurare la “distanza culturale” esistente tra le nazioni in una maniera empirica e precisa.
Difatti, l’esperto ha dimostrato che vi sono dei tratti distintivi precisi e uniformi che influenzano persistentemente un popolo: le sei dimensioni culturali. Ognuna di queste presenta due estremità e ogni Paese si orienta più verso l’una o più verso l’altra, permettendo così di identificare le sue caratteristiche culturali e di confrontarle. Le sei dimensioni del modello Hofstede sono: distanza dal potere; individualismo e collettivismo; mascolinità e femminilità; tasso di rifiuto dell’incertezza; orientamento al lungo termine e orientamento al breve termine; indulgenza e restrizioni.
Per facilitare la creazione di un’appropriata campagna di marketing specifica per una determinata cultura è inoltre comune lo studio approfondito di analogie in termini di mercato o di strategie già adottate. Celebre è l’esempio del processo decisionale della Disney, che in seguito al successo del parco tematico di Orlando Walt Disney World Resort ad Orlando, optò per la costruzione di Disneyland Paris.
Il colosso statunitense approdò in Francia dopo un’accurata ricerca di mercato che considerò il turismo, le infrastrutture, i collegamenti, il reddito delle famiglie, il contesto amministrativo oltre all’adeguatezza del terreno e del clima. L’attenzione prestata a questi aspetti non giovò in principio a una felice accoglienza del parco tematico da parte del pubblico europeo, che anzi fu animato da lamenti provenienti da intellettuali, abitanti e giostrai che percepirono l’apertura di Disneyland come una sorta di minacciosa “colonizzazione” americana materialista e volgare nella terra del romanticismo.
Il brand americano ricorse a strategie per adattare il proprio prodotto a un pubblico tanto esigente e accorto, e ad esempio ricreò delle specie di Passages parigini, utili anche a contrastare i disagi causati dalle frequenti piogge invernali. Inoltre, in termini di naming si cambiò nel 1994 il nome da EuroDisneyland a Disneyland Paris, per allontanare l’immaginario delle persone da ciò che risultava essere un termine monetario, per richiamare invece l’identità del luogo. Ancora, il brand considerò la cultura anche sul piano del “sogno”: la zona di Adventurland, che negli USA è caratterizzata dal paesaggio tipico amazzonico, si trasformò in un luogo di avventure ispirato al sogno europeo.
Se il marchio Disney si è adeguato alla cultura europea in termini di prodotto, una strategia di marketing può variare di nazione in nazione, adattando gli altri elementi costituenti del marketing mix: promozione, prezzo e distribuzione.
Per ciò che riguarda la cosiddetta promozione, un caso esemplare è Chanel che, cogliendo il crescente boom del mercato del lusso in Asia, modella la propria campagna pubblicitaria integrando come brand ambassador la star della musica K-pop Jennie Kim (parte del gruppo BlackPink).
Rimanendo in ambito fashion, ma spostandosi su quello fast, Zara opera con una strategia di marketing cross-culturale sul livello del prezzo: questo resta inferiore del -20% in Spagna a confronto con il resto d’Europa.
Infine, per ciò che riguarda la distribuzione i brand possono dare importanza all’offerta del proprio prodotto considerando i momenti e i contesti appropriati, attraverso i canali distributivi più adatti e disponibili di una specifica nazione. Già nel Novecento, ad esempio con Bauman, si ragionava di Glocalizzazione o Glocalismo, riferendosi alla necessità in svariati ambiti (dall’urbanistica al marketing) di «adeguare il panorama della globalizzazione alla realtà locali» e molti marchi hanno già fatto proprio il motto “Think Global, Act Local”. Tuttavia, non senza passi falsi.
Tornando a Ikea, è possibile individuare un’azione di marketing cross-culturale inadeguata, e a tratti imbarazzante.
Difatti, alcune traduzioni dei nomi dei prodotti del colosso svedese risultano incomode in altri Paesi come gosa raps che su Google Translate diviene in inglese cuddle rape, oppure ancora il banco da lavoro che ha fatto ridacchiare molti english-speaker per il suo nome fartfull.
Un’ulteriore grave svista di traduzione è quella di Pepsi che esordì in Cina con uno slogan traducibile come «La pepsi riporta indietro i tuoi antenati dalla tomba», che avrebbe dovuto invece significare «La pepsi ti riporta in vita».
Un’epic failure esemplare sul livello invece dei simboli può essere sicuramente quello della compagnia aerea Pan-Am che regalò dei fiori ai passeggeri per inaugurare le proprie tratte sul Pacifico: peccato che i fiori fossero garofani bianchi che in Estremo Oriente sono utilizzati nelle cerimonie funebri.
Anche la multinazionale Procter & Gamble ha subito uno spiacevole danno di immagine a causa di un’errata comunicazione cross-culturale che riproponeva in Giappone un’idea di successo nel mercato europeo: un uomo che irrompe nel bagno mentre la donna si sta facendo una doccia. Tale comportamento è stato giudicato di cattivo gusto dal popolo nipponico ed è stato recepito come un’inadeguata invasione dello spazio personale della figura femminile da parte di quella maschile, facendo così risultare la campagna un totale fallimento nel Paese.
Occorre quindi che i marchi che intendano affacciarsi a un mercato internazionale, seguendo un approccio basato sull’adattamento piuttosto che sulla standardizzazione, per mantenere la propria immagine intatta curino persino i dettagli più banali legati alla cultura di riferimento: ad esempio i numeri – negli Stati Uniti si dovrebbe evitare il 13 poiché considerato sfortunato – oppure i colori – in Giappone sarebbe bene non ricorrere al bianco siccome associato alla morte.
Un brand che parla la stessa lingua del suo consumatore anche a livello digitale è Audi.
Su Facebook differenzia l’approccio e i messaggi in modo evidente a seconda del target di riferimento. Se Audi Detushland si focalizza su una comunicazione diretta, oggettiva e logica improntata all’informazione del suo utente, Audi Espana, invece, risulta adottare uno stile più metaforico, ironico, implicito che mira a emozionare il suo lettore. Audi trae giovamento sia a livello di immagine che economico da questo suo peculiare accorgimento comunicativo e strategico, atto a catturare il suo target semplicemente adattandosi alla sua essenza, ai suoi valori e alle sue priorità.
Parlare la stessa lingua nei diversi contesti, mantenendo un’integrità complessiva, risulta essere una strategia vincente, poiché il marketing cross-culturale consente di valorizzare una potenziale sfida, di esaltare le peculiarità che rendono un luogo unico, di penetrare dentro la mente di un consumatore sempre più distratto e al contempo esigente, e conquistare infine il suo cuore dimostrandosi ad esso vicino, simile.
Una tale strategia volta a esaltare l’unicità e affiancarvisi è forse coerente con quella maniera di intendere l’universo di Tiziano Terziani: «come un tutt’uno in cui ogni parte riflette la totalità e in cui la grande bellezza sta nella sua diversità».