Da lunedì 12 settembre le scuole hanno cominciato e riaprire le proprie porte in tutta Italia. I banchi sono stati puliti, gli zaini preparati, gli outfit per la prima settimana stabiliti. Tutto è pronto per il ritorno alla monotonia con gli studenti che riabbracciano il compagno di banco preferito e salutano i professori.
Questo articolo però non si vuole concentrare, per una volta, sugli alunni ma proprio sulla figura del docente: diciamocelo, tutti noi abbiamo ne abbiamo avuto uno preferito e uno odiato e molto spesso la parola “professore” evoca nella nostra mente l’immagine di una persona sulla cinquantina, magari con gli occhiali e un’espressione un po’ annoiata sul viso.
Non a caso non è inusuale sentire durante l’appello del primo giorno di scuola l’insegnate dire qualcosa del tipo: «Rossi? Ma per caso sei il figlio/fratello di Mario Rossi? Ah, salutamelo!». Per noi addirittura è normale, praticamente scontato che un docente insegni nella stessa scuola da decine d’anni e quando scopriamo che quei punti fermi che hanno caratterizzato la nostra infanzia e adolescenza hanno lasciato il nido ci sentiamo spaesati, quasi scossi, e fatichiamo ad immaginare qualcun altro al loro posto.
Tale effetto però non lo avremmo se vivessimo in paesi come Francia o America, dove è più che normale vedere figure giovani e dinamiche dietro una cattedra.
Secondo il Rapporto Ocse Education at a Glance 2021, l’Italia detiene il record in negativo per età media degli insegnanti, tant’è che alla primaria il 58% dei maestri ha almeno 50 anni, contro la media Ocse del 33%; ancora più alto risulta il numero degli insegnanti con più di 50 anni, che si aggira al 62%, due su tre in pratica.
Tali numeri vanno inoltre a peggiorare ulteriormente con l’aumento dei livelli di istruzione, in quanto nella scuola superiore di primo grado i professori over 50 arrivano al 36% e al 40% negli istituti d’istruzione secondaria di secondo grado.
Addirittura, il 18% dei docenti ha più di 60 anni, ovvero il doppio della media europea che si ferma solo al 9%.
Per capire quanto sia grave la situazione basta pensare che in Europa l’età media dei docenti over 50 è non superiore al 36%. Considerando gli altri Paesi, quello più vicino all’Italia è la Bulgaria con 47,7% dei professori over 50 (quindi comunque con uno stacco con più di 10 punti a nostro favore), mentre a seguire abbiamo Estonia con il 47%, la Lituania con il 46,7%, la Lettonia con il 45,4% e la Germania con il 44,6%.
Al contrario si possono trovare insegnati giovani a Malta, che conta solo il 13,3% di docenti che hanno superato i 50 anni di età, a seguire il Regno Unito con il 19,7% e il Lussemburgo con il 21,1%.
In definitiva, le statistiche offrono un quadro sconsolante e viene spontaneo chiedersi quale possa essere la causa di una simile situazione.
In primis è da considerare sicuramente l’aspetto anzianità e pensione. Secondo Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief: «Con i pensionamenti d’anzianità̀ ormai alle soglie dei 70 anni, ogni anno ci ritroviamo a commentare un’età̀ media dei docenti che sale progressivamente.»
«È da tempo – sottolinea – che chiediamo per gli insegnanti con una specifica ‘finestra’ di pensionamento, una sorta di Quota 96 che permetta di lasciare la cattedra senza penalizzazioni come i carabinieri o le forze di polizia dello Stato».
Al momento il Governo ha deciso di collocare in questa casistica, inserendoli tra coloro che beneficiano dell’Ape Social, con uscita anche a 63 anni, solo con lievi penalizzazioni, solo i maestri della scuola dell’infanzia.
Quindi da una parte abbiamo professori sempre più anziani, logorati fisicamente e mentalmente dalla posizione che ricoprono da tutta la vita, e dall’altro giovani che faticano ad entrare nel sistema scolastico.
Questa però non si tratta di una crisi generazionale di aspiranti professori poco motivati, ma quanto più il risultato di un iter sempre più difficile e condizioni di assunzione non praticabili per tutti, caratterizzate da un precariato che sembra quasi infinito e costringe i giovani a cercare altri impieghi nell’attesa e speranza di riuscire, un giorno, a diventare di ruolo.
Senza parlare inoltre dei bassi salari rispetto agli standard europei nonché agli altri impieghi pubblici.
Concentrandoci sull’aspetto del percorso necessario per ottenere la cattedra, e in particolar modo sui requisiti richiesti per gli istituti di istruzione secondaria, essi hanno subito vari cambiamenti negli anni e a seconda delle amministrazioni: fino al 1999/2000 si accedeva ai concorsi per la cattedra semplicemente con una laurea conforme alla classe di concorso di riferimento, in seguito però tale metodologia non è stata ritenuta meritocratica e quindi si sono andate a creare le Sissis, ovvero scuole di specializzazione con il fine di preparare gli aspiranti insegnanti da un punto di vista sia didattico che pedagogico.
Alla fine del percorso, con abilitazione alla mano, si accedeva alle graduatorie che garantiscono incarichi annuali. Questo sistema non ha avuto vita lunga, in quanto queste scuole vennero chiuse nel 2008.
Fino al 29 giugno scorso, in teoria i giovani docenti dovevano essere in possesso solo di una laurea magistrale, 24 CFU (un corso che verte alla preparazione pedagogica) e in seguito superare il concorso, ma di fatto il percorso risulta assai più lungo: in molti casi non vi è uno specchio perfetto fra le lauree e i CFU richiesti nei vari ambiti per le classi di concorso, con il risultato che i ragazzi devono sostenere esami singoli per recuperare i crediti richiesti, portando a un notevole aumento dei tempi nonché a un dispendio economico non indifferente; oltretutto, non si tratta di semplici concorsi pubblici ma di esami approfonditi su programmi vasti e conseguentemente molto difficili, basti pensare che all’ultimo concorso indetto la primavera scorsa si è registrato ben il 90% di bocciati già alla prova scritta, senza tenere di conto dell’esaminazione orale.
In attesa del fantomatico posto di ruolo, i giovani ripiegano sulle GPS (le graduatorie) che sì, forniscono lavoro sicuro a settembre specialmente se si rientra in prima fascia, ma che rappresentano comunque la precarietà del sistema.
Non è inusuale che alcuni aspiranti si dedichino al sostegno, ambito con una minore richiesta, per cercare di abbattere i tempi di attesa per la cattedra.
Insomma, il percorso era già accidentato di per sé, ma dal 29 giugno 2022 il Ministero ha introdotto un nuovo ostacolo per i giovani, ovvero i 60 CFU.
Essi andranno a sostituire i 24 CFU, trattandosi di una serie di esami propedeutici all’insegnamento (36 CFU totali) e in più un tirocinio (24 cfu). Consolatorio, se così si può dire, è il fatto che è stato garantito ai giovani che hanno già conseguito i precedenti 24 CFU, ma non risultano ancora di ruolo, è che essi verranno integrati ai 60 CFU esonerandoli dal tirocinio. Ciò riguarda ben 600 mila insegnati che si trovano nuovamente a dover tornare loro in primis sui banchi, con i relativi costi.
Unica nota positiva di questa iniziativa è la prospettiva del concorso semplificato, caratterizzato da solo un test a risposte chiuse, ma una volta entrati nelle scuole è previsto un anno di prova al termine del quale vi sarà un test e una valutazione.
Ricapitolando quindi per diventare insegnati servirà dunque: laurea magistrale, eventuali CFU mancanti per la classe di concorso d’interesse, percorso di abilitazione di 60 CFU, concorso, anno di prova con test finale e valutazione conclusiva. Una bella lista.
La fase transitoria consentirà ai candidati dei concorsi fino al 31 dicembre 2024 di accedervi solo con i 24 CFU per poi integrare i restanti dopo aver superato il concorso. Tale fase si concluderà tra il 2025 e il 2026, anni in cui è previsto che la riforma di reclutamento entri definitivamente in vigore. È da sottolineare però che le informazioni sono in costante mutamento.
Si tiene a evidenziare, in tutto ciò, che la stragrande maggioranza degli insegnanti adesso di ruolo non ha dovuto affrontare tutto questo, in quanto, come precedentemente enunciato, fino al 2000 per accedere al concorso era sufficiente una laurea corrispondente, come fra l’altro succede oggi in Francia.
Il sistema di reclutamento professori viene da tutti molto criticato da sempre, ma con la prospettiva di dover ottenere ulteriori crediti diversi giovani aspiranti professori hanno riversato la loro furia sui social, TikTok in particolare, loro unica arma per esporre tutta la loro frustrazione.
Molti sottolineano quanto sia sconfortante per loro vedersi porre sempre un nuovo ostacolo, sottolineando che non è sostenibile essere precari a più di trent’anni nonostante si abbiano tutti i requisiti richiesti; altri mettono in luce il fatto che molti professori anziani sono giustamente stanchi e dovrebbero poter andare in pensione, lasciando il passo a giovani maggiormente stimolati e con passione; altri ancora ribadiscono l’assurdità di un’esaminazione così approfondita dal momento che il conseguimento della laurea in se dovrebbe essere la prova di avere competenze in una determinata materia, per non parlare di chi sente il sapore amaro dell’ingiustizia della consapevolezza che mentre c’è chi fatica per anni e anni a entrare nel mondo dell’insegnamento, la maggioranza di chi ne fa parte adesso non ha mai dovuto e mai dovrà penare così tanto.
Uno degli elementi positivi che ha portato il Covid è stata la possibilità per molti giovani di mettersi dietro a una cattedra e provare, anche se con contratti a termine, il mestiere del professore, esplorando la loro vocazione.
Ai tempi, infatti, vi era una grande richiesta di supplenti, in quanto molti insegnanti si trovavano impossibilitati a svolgere il loro ruolo. Alcuni erano malati, in quarantena o soggetti fragili, altri non volevano sottoporsi alla vaccinazione. Ora però i giovani vedono di nuovo il lavoro venirgli tolto e in più nuovi muri da scalare imposti dal Ministero ergersi dinanzi a loro.
Insomma, una modalità di reclutamento in continuo mutamento e un sistema pensionistico fallace sono gli ingredienti che portano oggi l’Italia ad avere i docenti più anziani d’Europa, con inevitabili conseguenze sulla qualità delle lezioni.
L’unica speranza per i giovani insegnanti, nonché per gli studenti stessi, è che il prossimo Governo prenda più a cuore il grave problema che il nostro bel paese ha in materia, concedendo pensioni e snellendo l’iter per ottenere la cattedra, al fine di garantire una maggiore qualità degli insegnamenti impartiti e dare più possibilità alla generazione entrante.