Radici racconta fatti, personaggi e umori della storia della Prima Repubblica italiana, dal 1946 al 1994. A questo link è possibile trovare gli articoli precedenti della rubrica.
A ogni papa il suo epiteto e un posto nell’aneddotica sacra. Dallo schivo Pier da Morrone, che fece il gran rifiuto e finì punzecchiato appena fuori dall’inferno dantesco, fino agli austeri padri del Concilio tridentino. Uno su tutti Pio IV: turbato insieme ai colleghi cardinali dagli affreschi osé di Michelangelo, vegliò sull’operato del Braghettone affinché coprisse le pudende con tocchi di pennello – i santi tutti nudi nella Cappella Sistina, si capisce, non stavano bene.
Angelo Giuseppe Roncalli, al soglio pontificio dal 1958 col nome di Giovanni XXIII, è invece noto come il «papa buono».
La fumata bianca a suo favore fu dovuta a una parvenza di innocuità agli occhi del conclave: data la veneranda età era considerato un matusalemme tranquillo, adatto a un papato di transizione. Tuttavia, il nuovo vescovo di Roma si fece notare subito per un certo iperattivismo. Anziano mite ma gagliardo, tra un sorriso e un’udienza abbozzò un dialogo con l’Europa dell’Est e mise in cantiere la transizione: non tanto la propria alla vita celeste, come aspettavano i cardinali, ma quella della Chiesa.
Tornando a casa, troverete i bambini; date una carezza ai vostri bambini e dite: questa è la carezza del papa. Troverete qualche lacrima da asciugare. Fate qualcosa, dite una parola buona.
La celebre allocuzione al chiaro di luna, trasmessa dalle TV di tutto il mondo, fu pronunciata in una sera di ottobre del 1962. Nonostante la semplicità da predica domenicale, quell’11 ottobre era la vigilia del Concilio Vaticano II, che è tuttora il più recente concilio ecumenico nella storia della Chiesa cattolica. Indetto nel 1959 da Roncalli nello stupore generale, si aprì tre anni dopo e proseguì fino al 1965.
Perché un concilio ecumenico?
Il primo, nel 325, era stato quello di Nicea, con la definizione del credo e la condanna delle tesi ariane. Ne erano seguiti altri: in risposta al proliferare delle eresie, alla Riforma di Lutero, alle turbolenze risorgimentali. I concili non solo come ripiegamento su di sé e riaffermazione identitaria, ma anche come controbattuta della Chiesa al flusso evenemenziale del mondo fuori.
È con questa chiave di lettura che bisogna guardare ai due precedenti fondamentali del Vaticano II: il Concilio di Trento (1545-63) e il Concilio Vaticano I (1869-70). Il Concilio tridentino, da intendersi anche come reazione alla diffusione del protestantesimo, segnò una vera e propria riorganizzazione, dagli ordini alle diocesi, fondamentale per il disciplinamento della società. La riunione del 1868, invece, si interruppe sulla Presa di Porta Pia proprio mentre si affermava l’infallibilità del papa, all’epoca Pio IX: la sua fine fu quella dello Stato pontificio, e l’inizio del faticoso rapporto tra Vaticano e il neonato Regno d’Italia.
La decisione di papa Roncalli sorprese l’episcopato cattolico: la Chiesa non stava affrontando alcuna crisi interna e l’ecumenismo, nel clima della Guerra Fredda, camminava un po’ controcorrente.
Fu lo stesso Giovanni XXIII a chiarire in modo programmatico gli scopi della riunione solenne: non si trattava di infliggere nuove condanne, ma di aggiornare la missione della Chiesa sulla Terra.
E questo significava fare i conti anche con quella modernità che, sintetizzata in una lista di proposizioni, era stata rigettata in blocco nel Syllabus da un furibondo Pio IX.
Le due encicliche principali firmate da papa Roncalli furono la Mater et Magistra (1961) e la Pacem in Terris (1963). Nella prima ci si riallacciava alla dottrina sociale della Chiesa, uno dei terreni preferenziali di competizione con l’associazionismo di sinistra: pur non riabilitando il comunismo, era significativa la ridondanza del concetto di equità come stella polare dello sviluppo economico, insieme al biasimo per lo sfruttamento coloniale.
La Pacem in Terris, che avrebbe fatto di Giovanni XXIII un’icona della distensione, invitava i potenti del globo alla collaborazione reciproca. Si trattava di un inedito appello a tutti gli uomini di buona volontà, a prescindere dalla loro fede, con un riguardo alle organizzazioni internazionali:
Che l’ONU si adegui sempre più alla vastità e nobiltà dei suoi compiti […] arrivi il giorno nel quale i singoli esseri umani trovino in essa una tutela efficace in ordine ai diritti che scaturiscono immediatamente dalla loro dignità di persone.
In linea con le encicliche, l’aggiornamento che il papa aveva in mente era improntato all’apertura e all’accoglienza.
Il fatto che si trattasse di un concilio nuovo e non della prosecuzione del Vaticano I segnava già un disancoramento dall’immobilismo di un cristianesimo scolpito sulle tavole di pietra – il Vangelo, per Giovanni XXIII, doveva parlare al suo tempo. Previa compilazione di questionari, i 2500 vescovi convocati avrebbero discusso argomenti come le relazioni con le altre religioni, i ruoli di vescovi e laici e le modalità di celebrazione dei riti, senza disdegnare revisioni liturgiche. Il tutto sotto gli occhi di osservatori appartenenti alle altre Chiese.
Le resistenze non mancarono certo. Su un primo punto, però, i padri conciliari si accordarono in fretta: il latino delle celebrazioni andava sostituito con le lingue parlate dai fedeli, per garantire una partecipazione attiva alla gente e una soggettività autonoma alle Chiese locali.
Papa Roncalli non avrebbe fatto in tempo a vedere la riforma entrare in vigore: morì ai primi di giugno del 1963, e come da prassi il concilio fu sciolto.
Gli sopravvisse lo spirito di rinnovamento: la riunione sarebbe stata riaperta e condotta a termine dal suo successore, papa Paolo VI.
Nel testo Nostra Aetate fu espresso in modo chiaro il ripudio dell’antisemitismo, mentre la Gaudium et Spes esaltava la positività, tra vari aspetti della realtà contemporanea, della ricerca scientifica.
Ma la piega più rilevante presa dall’ultima sessione conciliare fu l’ecumenismo. Il 7 dicembre 1965 fu letta nel plauso generale la Dichiarazione comune cattolico-ortodossa: a distanza di quasi un millennio dallo Scisma d’Oriente si annullavano le scomuniche reciproche tra Chiese romana e ortodossa.
Parlando di aperture, comunque, è bene non esagerare. Un caso esemplare, come sottolineato da uno studio di Daniele Menozzi, è lo sviluppo del tema dei diritti umani nei testi conciliari. La dimensione istituzionale della Chiesa cattolica avrebbe continuato a presentare il conto: leggi e diritti (compresa la famosa Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo) erano accettati con riserve, solo nella misura in cui la Sposa di Cristo, unica depositaria della sua verità ultima, potesse vegliare sulla loro conformità ai dettami trascendenti.
Farsi interprete esclusivo della volontà divina, ovvero di quelle leggi naturali che devono essere l’orma del diritto positivo, è un privilegio ermeneutico che la Chiesa non ha mai smesso di rivendicare.
BIBLIOGRAFIA
D. Menozzi, Chiesa e diritti umani, Bologna 2012. M. Mugnaini, Nazioni Unite e sistema internazionale, Milano 2018