Del: 23 Settembre 2022 Di: Erica Ravarelli Commenti: 0
Una donna al potere? Solo se è “madre e cristiana”

La data di cui si parla da più di due mesi è ormai alle porte: tra meno di quarantotto ore, 51,5 milioni di cittadini italiani saranno chiamati alle urne per esercitare il loro diritto di eleggere la classe dirigente che governerà il Paese per i prossimi cinque anni (sempre fatta salva la possibilità di assistere a premature crisi di governo, che in Italia sono tutt’altro che un’eccezione alla regola).

La scelta potrà ricadere su ben settantacinque partiti, sebbene i più noti si contino sulle dita di due mani: Sinistra Italiana e Verdi Europei, +Europa, Partito Democratico e Impegno Civico nella coalizione di centro-sinistra; Movimento Cinque Stelle; Azione e Italia Viva nel cosiddetto terzo polo e infine Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia e Noi Moderati nella coalizione di centro-destra. I più informati sono consapevoli di poter scegliere anche Italexit per l’Italia, il partito guidato dall’ex pentastellato Gianluigi Paragone, Unione Popolare con l’ex magistrato e sindaco di Napoli Luigi De Magistris e Vita, partito guidato anche in questo caso da un’ex cinque stelle: Sara Cunial.

È vero che nei quindici giorni che precedono le elezioni l’AGCOM (autorità per le garanzie nelle comunicazioni) vieta la diffusione di sondaggi. È altresì vero che non serve aspettare la chiusura dei seggi per affermare che la coalizione di centrodestra prevarrà su quella di centrosinistra.

Piuttosto scarsi sono, inoltre, i dubbi circa i rapporti di forza che si configureranno all’interno della coalizione vincitrice.

Sarà Fratelli d’Italia a prevalere sugli altri tre partiti di destra, e ciò potrebbe dar vita a qualcosa di inedito per la storia italiana: la prima premier donna potrebbe insediarsi a Palazzo Chigi pochi giorni dopo la conclusione della tornata elettorale. Un’eventualità, questa, su cui molti commentatori hanno espresso la propria opinione: alcuni affermano che si tratterà di una conquista senza precedenti, sostenendo che una premiership femminile rappresenterebbe un segnale positivo di rottura con il passato, mentre altri ritengono che l’identificazione con il sesso femminile non sia sufficiente a fare della Meloni una paladina dei diritti delle donne.

Qualche breve considerazione circa le posizioni politiche e le dichiarazioni rilasciate dalla leader di Fratelli d’Italia durante questa campagna elettorale – e non solo – può aiutarci a capire quale delle due affermazioni si basa su fatti piuttosto che su congetture.

Il primo fattore da considerare è il modello che Giorgia Meloni è solita citare come esempio di buona gestione della cosa pubblica: si tratta della giunta Acquaroli, attuale presidente della regione Marche nonché vecchio amico della leader di Fratelli d’Italia. Ancor prima di essere eletto alla guida di quella che un tempo era una roccaforte rossa, Francesco Acquaroli era finito nel mezzo di una polemica per aver partecipato, il 28 ottobre 2019, a una cena commemorativa della marcia su Roma, di cui, per ironia della sorte, proprio quest’anno ricorre il centenario. Allora deputato, Acquaroli si era giustificato sostenendo di non essere a conoscenza del reale motivo per cui la suddetta cena fosse stata organizzata.

Volendo sorvolare su questo elemento che, sebbene costituisca motivo di imbarazzo, non è essenziale ai fini della nostra analisi, prendiamo in considerazione una caratteristica piuttosto allarmante della giunta Acquaroli, ossia le restrizioni in materia di accesso all’aborto. Nonostante la recente operazione di restyling che Giorgia Meloni sta tentando di effettuare preveda un’assertiva difesa di tale diritto («Non intendo abolire o modificare la legge 194. In che lingua ve lo devo dire?» ha affermato recentemente in un’intervista a Massimo Giletti), nella regione che la leader elogia per il suo buon governo l’accesso all’aborto non sembra essere così semplice come si vorrebbe far credere.

I dati parlano chiaro: nelle Marche, il 70% dei ginecologi si dichiara obiettore di coscienza (la media nazionale è del 64,6%).

Inoltre, il tasso di abortività è pari al 4,5% contro una media nazionale del 5,4% e delle 1327 donne che nel 2020 hanno deciso di effettuare l’interruzione volontaria di gravidanza, 110 (8,3%) hanno dovuto farlo fuori regione. Numeri, questi, che dimostrano come la tutela del diritto di scegliere sia garantita più ai medici che alle donne. A ciò si aggiunge il fatto che, come sottolinea il quotidiano Guardian, “mentre a livello nazionale l’aborto può essere somministrato fino a nove settimane di gravidanza, nelle Marche il limite è di sette settimane”. E ancora: “spesso la donna non scopre di essere incinta prima della quinta o sesta settimana”, a cui ne va aggiunta un’altra in quanto, “dopo aver ricevuto il certificato che autorizza l’aborto, la donna deve riflettere per una settimana prima di poter procedere”.

Non si può sorvolare, inoltre, su quanto accaduto a fine gennaio 2020, quando il consiglio regionale marchigiano ha deciso di non aderire alle linee guida emanate dal ministero della Salute, di fatto vietando la somministrazione della pillola abortiva presso i consultori familiari: le marchigiane, pertanto, sono costrette a seguire il più complicato percorso del ricovero ospedaliero (ne avevamo parlato qui).  

Non è difficile, dunque, capire per quale motivo sul tema dell’aborto, «qualche pseudo femminista», come le chiama lei, accusi la Meloni di voler difendere tale diritto soltanto a parole, mentre le azioni dei suoi fedelissimi – che lei stessa non manca di elogiare – sembrano comunicare tutt’altro messaggio.

La chiave di lettura che può aiutarci a comprendere il motivo per cui, di fatto, la possibilità di rompere il soffitto di cristallo è riservata a donne che provengano da partiti conservatori (da Christine Lagarde a Roberta Metsola, da Margaret Thatcher a Liz Truss, passando per Marine Le Pen e, appunto, Giorgia Meloni), risiede nella loro adesione al sistema di potere patriarcale, perpetuato e rafforzato dalle loro posizioni politiche e dalla loro visione della società: la difesa della famiglia tradizionale, la criminalizzazione della “devianza”, la condanna della gestazione per altri e del sex work, il rifiuto di sensibilizzare i giovani su temi quali l’identità di genere e l’orientamento sessuale, bollato come tentativo di diffondere le “teorie gender” nelle scuole.

E allora, come lucidamente spiegato dalla scrittrice Michela Murgia, piuttosto che chiederci se Giorgia Meloni sia femminista o no dovremmo chiederci quale modello di potere stia esercitando, quale idea di società stia proponendo, quali parole d’ordine stia pronunciando. Ci renderemo conto, così, che il sesso biologico della potenziale premier italiana non basta a far gioire chi da anni lotta per rivendicare il proprio diritto a governare senza doversi conformare a un sistema di potere che è stato pensato e costruito a immagine e somiglianza del soggetto maschile e che si basa sull’esclusione di quello femminile.

Erica Ravarelli
Studio scienze politiche a Milano ma vengo da Ancona. Mi piace scrivere e bere tisane, non mi piacciono le semplificazioni e i pregiudizi. Ascolto tutti i pareri ma poi faccio di testa mia.

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