Le elezioni politiche del 25 settembre 2022 si concludono con un seggio dall’esito controverso e animatamente dibattuto. La vittoria elettorale del centrodestra scardina ogni auspicio di progressismo e squalifica il citato “campo largo”, riconducendo il podio ad un conservatorismo stagionato.
C’è chi sostiene che la destra stia minando il sentiero democratico della Repubblica italiana, accusandone i suoi volti più noti, biechi figuri che tranciano l’opinione pubblica tra rigetto e consenso.
Eppure, a pensarci con logica alacre e non a passivo risentimento, la loro maggioranza non sarebbe nient’altro che superficie riflettente di una mera e matematica preferenza democratica alle urne. Il governo, nel bene o nel male, ritrarrà la scenografia più applaudita dai suoi stessi cittadini. Giorgia Meloni ha dirottato voti anche grazie alle lacune di pratica politica e agenda comunicativa del centrosinistra, ormai insostenibili nel divario che hanno dimostrato tra il famoso dire e fare.
Oltre alla furia monodirezionale contro i politici e non gli elettori, si fa largo il risolutivo astio collettivo che delega la colpa all’elettorato della terza età, ritenendo ancora una volta che siano gli anziani coloro che “votano male”, ovvero a sfavore dei giovani.
A tal proposito sorprenderà quindi dimostrare dei numeri lucidamente riportati da Il Post in merito alla questione, i quali, con grande rammarico, sconfessano ognuna di queste presunzioni, confermando invece una palese attrazione allo status quo da parte di fasce di certo più sbarazzine di quanto si fosse previsto.
Tuttavia, come se non fosse già abbastanza il metabolismo di questi risvolti inattesi, a rinsaldare il comportamento deludente dei garzoni italiani è soprattutto un altro dato, ovvero quello riguardante l’astensionismo. L’affluenza si attesta solo al 63,9 %, il dato più basso di sempre per la storia repubblicana, con un calo del 9 % dalle elezioni politiche del 2018. Ciò significa che più di un terzo della popolazione non è andato a votare, un fenomeno di astensionismo asimmetrico che compromette ulteriormente le fazioni politiche prossime alla disfatta.
L’alto tasso di astenuti è imputabile in parte all’inattuabilità del voto fuorisede: migliaia gli studenti e lavoratori di conseguenza rinunciatari alla nobile convocazione, come esposto in dettaglio dall’articolo di Costanza Mazzucchelli qui su Vulcano.
Tuttavia, in concomitanza con l’astensionismo involontario, l’ampiezza luttuosa di questo numero contiene anche molteplici neomaggiorenni, gabbati dal feroce entusiasmo al possesso di una scheda elettorale ancora vergine, cui voce in capitolo sostiene, a detta loro, la futilità di rilasciare una preferenza qualora non si riconoscesse alcuna rappresentanza partitica in maniera esaustiva. La loro convinzione ha toni di protesta, emerge orgogliosa della propria decisione come una crociata in opposizione ai conservatori; l’unico vero messaggio che lanciano gli astenuti è invece di ragguaglio allo Stato, circa la dilagante piaga dell’ignoranza in materia di cittadinanza e costituzione, che affligge perfino le nuove generazioni di votanti.
L’assottigliamento demografico, seguito dall’inasprimento delle prospettive lavorative e da un incremento della precarietà, coltivano una serra di sfiducia nel quale disertare le urne, almeno in apparenza, risulta eroica disapprovazione.
Chi non vota si proclama meccanicamente complice della maggioranza e, in questo caso specifico, degli stessi ideali tabù ai quali professa di remare contro.
L’astensione è l’equivalente figurativo di un bastone tra le ruote posizionato con autonomia, nociva nella sua inconsapevolezza. Il rifiuto di votare ha un senso causale efficace solo nel caso dei Referendum, dove la norma costituzionale richiede un quorum strutturale costituito dalla partecipazione alla votazione della maggioranza degli aventi diritto al voto. Ma nella competizione elettorale corrente, la scelta del non-voto non preclude al raggiungimento di un esito definitivo al futuro del governo.
Forse, in aggiunta, un nuovo e insospettato fattore si insidia tra quelli già considerati.
L’elettorato attivo potrebbe assistere ad una partecipazione talmente indebolita per via del graduale isolamento dettato dai nuovi canali di comunicazione. I social media hanno come massima primaria quella di accontentare il fruitore in ogni suo impulso, alla mercé dell’algoritmo. La consuetudine ad un appagamento esauriente nel privato abitua l’individuo a pretenderlo anche nel pubblico, laddove invece il compromesso è sovente la formula motrice dell’equilibrio collettivo. Oltre a questo, la sequenziale infatuazione nei confronti della sintesi trasforma le piattaforme virtuali in un suolo fertile alla propaganda populista, la stessa che aizza l’opinione pubblica più profana e addormentata. Starebbe alla votazione strategica (saggia possibilità sperperata anche dai numerosi voti attribuiti a gruppi già in previsione non collocati) il potere di fare in modo che quest’ultima non assuma le sue fattezze più minacciose, proprio come invece ha fatto in questo recentissimo sviluppo elettorale.
Il diritto di voto è decretato dall’articolo 48 della Costituzione italiana. Quello che si oblia però, è che oltre ad essere un diritto, il voto è parimenti un dovere civico, del quale ogni cittadino è titolare.