Del: 17 Ottobre 2022 Di: Erica Ravarelli Commenti: 0
La protesta dell'Iran contro 43 anni di oppressione

Il simbolo delle manifestazioni è una ciocca di capelli, il grido che si leva dalle piazze è “Zhen, Zhian, Azadi!”, ossia “Donna, Vita, Libertà”.  L’Iran pretende giustizia e democrazia, le donne iraniane rischiano la vita in nome del loro diritto di scegliere, le piazze di tutto il mondo si uniscono alla ribellione di un popolo oppresso da un regime dittatoriale che non lo rappresenta.

Tutto ha inizio da un viaggio trasformatosi in tragedia: è il viaggio di Mahsa Amini, la ragazza di 22 anni che dal Kurdistan si era recata presso la capitale Teheran con la sua famiglia.

È qui che Amini viene arrestata dalla polizia religiosa iraniana per aver violato le regole che stabiliscono come indossare l’hijab correttamente. Tre giorni dopo, ossia lo scorso 16 settembre, Amini morirà in ospedale. La famiglia della ragazza non ha dubbi su quali siano le cause della sua morte, ossia il trauma cranico dovuto alle percosse che la ragazza avrebbe subito subito dopo l’arresto. Tesi, questa, confermata dalla versione di alcuni testimoni nonché dagli evidenti lividi riportati sul viso della ragazza e visibili in alcune foto circolate su Twitter. A smentire questa versione è stata l’Associazione di medicina legale, un corpo che dipende dallo Stato, secondo cui la morte di Amini sarebbe stata causata da un’ipossia, cioè una carenza di ossigeno dovuta a malattie pregresse.

La reazione degli iraniani è stata immediata ed estesa: in più di 80 città uomini e donne sono scesi in piazza pretendendo giustizia e invocando la destituzione della Guida suprema del Paese, l’ayatollah Ali Khamenei. Secondo quest’ultimo, e dunque secondo la versione che il regime cerca di diffondere attraverso i media che controlla, le rivolte in corso sarebbero orchestrate dagli Stati Uniti e da Israele, e ciò giustificherebbe la brutale reazione della polizia iraniana: stando a quanto riportato dall’organizzazione non governativa Iran Human Rights, dall’inizio delle proteste sarebbero state uccise 201 persone, di cui 23 bambini.

Tra le tante vittime della repressione c’è Nika Shahkarami, sedicenne iraniana la cui zia ha recentemente dichiarato che sua nipote si sarebbe tolta la vita lanciandosi dal tetto di un palazzo.

Quella del suicidio, tuttavia, non sembra essere un’ipotesi plausibile in quanto, nella sua ultima telefonata, la ragazza dice chiaramente di essere intenta a scappare dalla polizia. E non è questo l’unico dettaglio che non torna nella versione governativa: secondo il regime, infatti, il corpo di Nika Shahkarami sarebbe stato ritrovato la mattina dopo, ma se così fosse bisognerebbe spiegare il motivo per cui non sia stato possibile identificarla rapidamente, poiché la notizia della sua morte è arrivata solo dieci giorni dopo la scomparsa. C’è, poi, Sarina Esmailzadeh, anche lei sedicenne, anche lei uccisa dalle forze di sicurezza durante una protesta lo scorso 23 settembre. E la lista si allunga se si considerano le ragazze arrestate di cui non si hanno notizie da giorni.

Queste ragazze sono diventate il simbolo di una rivolta le cui radici affondano in un terreno fatto di povertà estrema e ingiustizia sociale dilagante. Secondo Sayed Ali Hasani, un mediattivista intervistato dal The Guardian, le proteste che scuotono il Paese in questi giorni sono motivate dall’ormai decennale repressione di libertà fondamentali come quella di espressione e di opinione, oltre che dal fatto che le persone sono stanche di vivere nella povertà per finanziare una guerra per procura, quella contro Israele, che non sentono come propria.

Le tensioni sociali si sono ulteriormente acuite lo scorso 15 agosto, quando il governo ultraconservatore di Raisi ha firmato un decreto che ha inasprito le leggi riguardanti il codice di abbigliamento a cui le donne devono attenersi nella loro quotidianità.

Uno dei provvedimenti più stringenti è sicuramente quello riguardante l’uso del riconoscimento facciale sui mezzi pubblici: il Segretario del Dipartimento per la Promozione della virtù e la prevenzione del vizio ha dichiarato che queste tecnologie sarebbero state utilizzate per identificare le donne che non indossano l’hijab, le quali sarebbero state poi multate o anche costrette a sottoporsi ad un percorso di rieducazione. Il decreto prevede, inoltre, pesanti sanzioni in caso di pubblicazione di foto senza hijab sui social network.

È ragionevole pensare che questo giro di vite abbia creato una situazione insostenibile per le donne iraniane, in quanto, secondo una ragazza iraniana che siamo riusciti a intervistare e che per motivi di sicurezza preferisce restare anonima, nel suo paese molte donne non indossano l’hijab perché credono nel suo significato, ma per attenersi ad una regola la cui violazione comporta delle pesanti conseguenze.

Pur non vivendo in Iran, inoltre, la nostra testimone afferma che non si sente sicura a protestare a volto scoperto, per cui quando scende in piazza preferisce coprirsi come può, indossando ad esempio mascherina e occhiali da sole.

Il suo timore, infatti, è che alcuni informatori del governo iraniano possano identificare i manifestanti per poi costringerli a tornare in Iran revocando il loro visto. I motivi di preoccupazione per la ragazza che abbiamo intervistato si moltiplicano se si pensa che l’unico membro della sua famiglia che attualmente non si trova in Iran è sua madre, mentre le sue due sorelle, suo fratello e suo padre si trovano a dover fare i conti in prima persona con una situazione potenzialmente esplosiva che si protrae da circa un mese. Rimanere in contatto con loro è tutt’altro che semplice poiché da circa venti giorni il governo iraniano sta cercando – e in gran parte ci sta riuscendo – di bloccare l’accesso a Internet su tutto il territorio, essendo questo l’unico canale attraverso il quale è possibile scambiare messaggi che documentino ciò che sta accadendo nel paese: tutte le altre emittenti, infatti, sono controllate dal regime teocratico di Raisi.

È proprio questo uno dei motivi per cui le iniziative di solidarietà che si stanno diffondendo in questi giorni, tra cui l’ormai famoso taglio di una ciocca di capelli che viene poi inviata all’ambasciata iraniana a Roma, sono così importanti per l’Iran e per tutti noi, perché, come afferma la ragazza che abbiamo intervistato, «quello che sta succedendo in Iran non riguarda una sola persona né un solo paese, bensì tutto il mondo, poiché sono in gioco i diritti umani di un’intera popolazione». Un concetto, questo, che si ripropone nelle parole pronunciate lo scorso mercoledì dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, la quale ha annunciato l’imposizione di sanzioni contro la violenta repressione delle proteste da parte dei funzionari di stato iraniani.

Le ciocche di capelli raccolte alla Triennale di Milano come simbolo di solidarietà.

Uno spiraglio sembra essersi aperto pochi giorni fa, quando Ali Larjiani, ex membro del parlamento Iraniano e dunque importante figura dell’establishment, ha espresso dei dubbi a proposito delle attuali politiche sull’hijab, riconoscendo, peraltro, che le proteste hanno radici politiche profonde e che «quando un fenomeno culturale si estende a macchia d’olio, rispondere rigidamente non è la soluzione adeguata». Le parole di Larjiani non segnalano di certo una radicale inversione di rotta da parte del governo, ma sembrano suggerire che le speranze del popolo iraniano non sono del tutto vane. E allora è necessario che l’attenzione rimanga viva e che il mondo tenga i riflettori puntati su quello che sta succedendo in un Paese i cui abitanti chiedono solo questo: donna, vita, libertà.

Erica Ravarelli
Studio scienze politiche a Milano ma vengo da Ancona. Mi piace scrivere e bere tisane, non mi piacciono le semplificazioni e i pregiudizi. Ascolto tutti i pareri ma poi faccio di testa mia.

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