«Il titolo di “onorevole” è sostituito dall’appellativo di “cittadino portavoce”». È attraverso questa proposta di legge, presentata alla Camera il 21 maggio 2015, che sei deputati cercano, tramite un’iniziativa dai risvolti politicamente trasversali e dal forte valore egualitario – per alcuni semplicemente populista – di abolire un titolo oramai diventato anacronistico, privo di riscontro meritorio se non per la carica pubblica di cui si è titolari. Tale sostituzione simboleggerebbe, a tutti gli effetti, la vicinanza tra elettore ed eletto, una linea diretta tra territorio e rappresentante di quest’ultimo. I principi della delega, del mandato e dunque della rappresentanza sono quindi considerati scontati, naturali, quasi sottintesi nella pratica democratica.
A pochi giorni dalle ultime elezioni politiche, tenutesi il 25 settembre, l’Istituto Demopolis pubblica un dato percentuale passato quasi inosservato tra sondaggi, dichiarazioni e “scoop” su vecchie militanze di politici noti e meno noti (senza contare i sempre presenti meme, tweet e frecciatine social):
il 66% degli elettori non conosce nemmeno il nome del candidato nel proprio collegio uninominale e, di conseguenza, di colui che lo rappresenterà in Parlamento.
È il risultato di una legge elettorale che favorisce come nessun’altra in precedenza le designazioni dall’alto delle segreterie dei partiti, oltre che di un referendum, quello del settembre 2020, il quale riducendo il numero dei parlamentari ne aumenta come conseguenza diretta lo spazio territoriale (sempre più teoricamente) da loro rappresentato. In Piemonte, ad esempio, il riconfermato deputato Gusmeroli dovrà rappresentare all’uninominale non solamente la provincia di Novara, ma, a partire dalla XIX legislatura, anche quella del Verbano-Cusio-Ossola, cercando di fare le veci e gli interessi di 96 comuni (escluse fusioni) in più rispetto al mandato precedente (passando da 56 a 152), all’interno di una realtà diversissima per geografia fisica, economia, professionalità (dal frontaliere di Domodossola all’imprenditore risiero di Borgolavezzaro).
Questa diminuzione di rappresentanza è ancora più considerevole in collegi ad alta densità o di grande estensione. Il primato alla Camera, in quanto a popolazione in un singolo uninominale, è quello di Napoli-Quartiere 7 con 489mila abitanti e 373mila elettori (precedentemente alla riforma, sul podio nazionale svettava Catania, con 247mila elettori). Al contrario, nel rispetto delle autonomie, alcuni collegi più piccoli possono contare su un numero di parlamentari per elettore notevolmente maggiore: un senatore su 98mila in Valle d’Aosta. Diritto garantito dall’art. 57 della Costituzione.
Vi sono poi le circoscrizioni estere (qui, ha votato alle recenti politiche poco più di un quarto degli aventi diritto, record storico negativo), nelle quali il principio di delega è quasi un miraggio: il voto degli italiani residenti all’estero è demandato a dei super portavoce del popolo, che, oltre a partecipare all’attività legislativa a Roma, dovrebbero essere capaci di rappresentare interi continenti, come nel caso dell’America Meridionale (due deputati e un senatore) e di Africa, Asia, Oceania e Antartide (due parlamentari in totale).
L’Italia, in seguito al referendum sul cosiddetto taglio dei deputati e senatori, è notevolmente scesa, anche nella classifica europea, nel rapporto fra parlamentari e numero di cittadini: uno ogni 100mila abitanti (simile al Regno Unito),
secondo una ricerca dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica di Milano. Lo stesso registra (attraverso un preciso modello statistico) una forte regressione, passando da un eccesso a una carenza di 75 membri tra Montecitorio e Palazzo Madama.
Essere conosciuti dagli elettori diventa quindi, come dimostrato dalla ricerca di Demopolis, sempre più complicato. Le motivazioni sono molteplici e articolate, originate senza dubbio, oltre che dall’impianto giuridico-costituzionale, anche dalla disaffezione graduale e costante dei cittadini per il mondo politico. Interessante notare, invece, come la fiducia nelle istituzioni lato sensu, nonostante la percezione collettiva, sia in realtà leggermente aumentata dal 2011 al 2021: +14% il Parlamento, +11% le Regioni, +9% i partiti. Sono dati, quest’ultimi, utili senz’altro ad avere una visione generale.
Un’analisi, seppur parziale, dell’attuale rappresentanza in Italia non può però prescindere da ulteriori elementi. Una prima considerazione riguarda, ad esempio, le professioni. Nella legislatura che volge ormai al termine, gli avvocati rappresentano una quota altissima: 90 alla Camera, 44 al Senato (erano rispettivamente 86 e 35 nella scorsa). Sono numeri da Italia liberale (199 senatori si identificarono come tali dal 1861 all’ottobre 1922, secondo i dati riportati dall’Archivio Storico del Senato), i quali non fanno altro che riflettere una separazione tra politica, istituzioni e paese reale.
Un elemento ancora più significativo riguarda l’impossibilità di scrivere alcun nome sulla scheda elettorale.
Il cosiddetto listino bloccato, bocciato dalla Corte Costituzionale nella forma prevista dalla Legge Calderoli (comprendente un elenco ben più lungo degli attuali quattro nomi), ha cambiato radicalmente il rapporto tra elettore e candidato. Sino all’approvazione del Mattarellum, nel 1992, gli elettori potevano scrivere, scegliendo sempre da una lista, il nome del loro deputato o senatore preferito. Questo determinava una campagna elettorale costruita sul territorio, a contatto diretto con il proprio collegio, da cui provenivano richieste, problematiche e istanze che il futuro parlamentare conosceva in prima persona e poteva (cercare di) portare nei palazzi romani.
Molti nomi noti al grande pubblico negli anni Ottanta furono “catapultati” in politica anche perché in grado di ricevere migliaia di preferenze (celebri i casi Gerry Scotti, oltre 9mila a Milano, e Ilona Staller, 20mila). È un metodo tuttora usato, certamente, ma all’interno di un sistema elettorale completamente diverso: il nome influisce ora in misura decisamente minore e la competizione è, in molti casi, già stabilita dai sondaggi commissionati dai partiti (e ovviamente dai media). Un candidato di importanza primaria verrà quindi inserito in collegi considerati sicuri, anche se molto lontani dalla propria base di consenso, natia o d’interessi: esemplare è la recente elezione della forzista Marta Fascina a Marsala (Sicilia 1-U06), luogo in cui non si è mai recata (se non come turista o da bambina), nemmeno per la campagna elettorale. Con un sistema e una legge elettorale che avessero favorito la preferenza scritta del nome, la vittoria sarebbe stata sicuramente più complicata. Caso analogo, seppur con esito diverso, è quello dell’ex capogruppo alla Camera del M5S Davide Crippa, di Novara, eletto in quella circoscrizione nella scorsa legislatura e spostato nel 2022 in Campania, dove la probabilità di diventare questa volta senatore (con la tessera di Impegno Civico) è risultata più alta.
Le possibilità di paracaduti sul territorio nazionale, per una forza intenta a far eleggere un esponente, sono innumerevoli: sino a cinque collegi plurinominali, più l’uninominale (che vale, da solo, il 37,5% dei seggi).
Da considerare come si tratti, inoltre, di un sistema sfruttato dai partiti più piccoli per esser maggiormente presenti. Le pluricandidature, alle ultime politiche, hanno raggiunto il 34,3% dei candidati del M5S, il 30,2% di Italexit, il 17,7% di Azione-Italia Viva, l’8,8% del Partito Democratico, il 7,9% di Forza Italia. Questo ha almeno due significative ripercussioni: la vittoria del medesimo candidato in più collegi implica la sua elezione in quello con meno voti ricevuti (con precedenza all’uninominale) e come conseguenza il successo, a scalare, dei successivi candidati nel listino.
Tale situazione può creare, e crea, confusione e ulteriore scollamento con l’elettorato. Coloro i quali hanno recentemente votato il Movimento 5 Stelle guardando sulla scheda il nome di Giuseppe Conte come primo del listino, a parte in un collegio non vedranno eletto lui, ma i seguenti candidati, essendo l’ex Presidente del Consiglio risultato vincente in più plurinominali. Stessa modalità per altri futuri parlamentari, anche non leader: Enrico Letta (plurinominali in Veneto e Lombardia), Silvio Berlusconi (dove prevarrà l’uninominale Lombardia-U06), Aboubakar Soumahoro (candidato in Lombardia, Puglia, Veneto ed Emilia-Romagna). Previste con questa procedura dall’attuale sistema elettorale, le candidature hanno così un effetto avverso al senso e alla percezione di rappresentanza territoriale, a favore di calcoli e strategie dei dirigenti centrali di partito.
Una seconda conseguenza, collegata sempre alle liste e al potere politico, è la questione delle quote di genere. Prima legge elettorale nazionale realmente applicata ad includerle (l’Italicum, con una regolamentazione meno pronunciata in materia, non fu mai usato), il Rosatellum ne norma il rapporto nelle liste plurinominali (alternanza uomo-donna) e negli uninominali (dove la proporzione può essere come capilista al massimo di 60:40). Essa, però, può essere facilmente superata e aggirata attraverso lo strumento delle pluricandidature. Per fare un esempio, alle politiche del 2018 vi sono stati casi di sei seggi, uno uninominale (in Trentino) e cinque plurinominali (in Lombardia, Sicilia e Lazio) vinti dalla stessa candidata (Maria Elena Boschi). Cinque di questi sono andati poi a uomini (e una donna, Micaela Campana, solo perché terza del listino in un collegio con un buon risultato del Partito Democratico). La situazione che va così delineandosi a Montecitorio e Palazzo Madama non rispecchia il rapporto tra sessi sulle schede: la prossima legislatura vedrà il 31% di donne (erano il 35% nella XVIII, primato finora nella storia repubblicana). Sono cifre percentuali esigue se comparate ad altri Paesi dell’UE, ma in forte e rapida crescita rispetto ad anni anche molto recenti: nella XV legislatura (dal 2006 al 2008) le donne, al Senato, erano 45 su 335, il 13,43%.
La rappresentanza in Parlamento, in conclusione, se gestita secondo queste modalità, non può che essere giudicata problematica, creatrice di un circolo vizioso tra distacco e mancanza di conoscenza del territorio, irresolutezza dei problemi e conseguente aumento di astensionismo.
Con un’affluenza pari al 63,9%, le politiche del 2022 sono state nettamente le meno attrattive nelle cabine elettorali (erano circa l’84% i votanti solamente nel 2006). Soluzioni per un cambiamento vengono proposte (tralasciando l’iter in aula, quasi mai lineare) da gruppi parlamentari e movimenti di aree e sensibilità differenti. Necessarie e primarie, in ogni caso, anche al fine di una maggiore compattezza istituzionale, sono la scrittura e l’approvazione, da parte di più schieramenti politici possibili, della prossima legge elettorale (quella in vigore fu votata favorevolmente nel novembre 2017 da quasi tutte le allora principali forze, ad eccezione del Movimento 5 Stelle). Una presa di coscienza del problema, in primo luogo da parte dell’opinione pubblica, è il primo passo perché il sistema creatosi possa essere rinnovato e modificato.
Significativi cambiamenti in questo senso sono le recenti discussioni riguardanti la cancellazione dei listini bloccati nelle leggi elettorali regionali, sostituiti con preferenze scritte (modifica già attuata nel Lazio nel 2017, al centro di accesi scontri in Umbria e negli ultimi mesi dibattuta in Piemonte, dove il listino legato al Presidente prevede ben dieci nomi). Se da un lato le polemiche e i contrasti permangono nella contrattazione politica, dall’altro le critiche all’attuale struttura giuridica sono sempre più presenti e sentite da una parte considerevole della società civile, colpita direttamente dal perdurare di una sofferta sterilità del processo riformatore, in primo luogo gli studenti fuorisede (circa 591mila). Mai come in questa tornata elettorale e nei programmi di più partiti (+Europa, PD, Azione-Italia Viva) sono state promesse celeri aperture e facilitazione al loro diritto di poter votare senza recarsi obbligatoriamente presso il proprio Comune di residenza. La recente possibilità, garantita dalla modifica dell’art.58 nel 2020, ai maggiorenni di età inferiore ai 25 anni (600mila in Lombardia) di ricevere la scheda per il Senato può diventare la prima di una lunga e indispensabile serie di misure in direzione di una (ri)conquista di una reale rappresentanza popolare.
Fonti utilizzate e bibliografia: Ministero dell’Interno (risultati e liste elettorali, collegi e circoscrizioni). Dati aggiornati al 2 ottobre 2022; Senato della Repubblica e Camera dei Deputati (proposta di legge ordinaria, atto n. 3138 – XVII Legislatura, mappe dei collegi del Piemonte, numeri e statistiche delle professioni); Studi, ricerche e analisi (Demopolis; Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica di Milano; Il Corriere della Sera; Demos; Eunews; YouTrend; Il Sole 24 Ore; Openpolis); Regione Lazio, Regione Piemonte (Leggi elettorali regionali in vigore); G. Astuto, Le istituzioni politiche italiane, Roma, 2016; Gazzetta Ufficiale (Legge 3 novembre 2017, n. 165 e Legge 21 dicembre 2005, n. 270); Corte Costituzionale (sentenza n. 1/2014).