
Il 22 ottobre del 2009, Stefano Cucchi muore nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini. Già fermato una settimana prima, era stato visto cedere ad Emanuele Mancini delle bustine trasparenti in cambio di una banconota. Ci fu quindi una prima perquisizione, durante cui furono trovati 20 grammi di hashish, involucri contenenti della cocaina e dei medicinali che Stefano utilizzava per curare la propria epilessia.
Quello fu il giorno del pestaggio, causa della sua morte, innestato dal fatto che Stefano non volesse sottoporsi ai rilievi della polizia scientifica. Fu compiuto nella caserma della compagnia Casalina, dai carabinieri Alessandro Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro (come da testimonianza del carabiniere Francesco Tedesco nel 2018), condannati a 13 anni per omicidio preterintenzionale il 7 maggio 2021. Ciò accadde dopo una seconda perquisizione a casa di Cucchi, che si rivelò però fallimentare: fu quella l’ultima volta in cui sua madre lo vide vivo.
Il 16 ottobre, il giorno successivo, si tenne l’udienza di convalida per l’arresto.
Stefano rispose alle domande del giudice, dichiarandosi innocente in ordine all’addebito da lui contestato: «io mi dichiaro innocente per quanto riguarda lo spaccio, mi dichiaro colpevole per quanto riguarda la detenzione, per uso personale». Lì era presente anche il padre di Stefano, il quale notò sul viso del figlio dei segni intorno agli occhi: una lampadina accesa che permise a lui e agli altri presenti in aula, di capire quanto le condizioni fisiche del ragazzo fossero diventate in breve tempo allarmanti.
Infatti, dopo una visita del medico del tribunale e dopo un’altra visita tenutasi nell’infermeria del carcere di Regina Coeli, ci fu il trasferimento del pronto soccorso Fatebenefratelli per accertamenti. Nonostante Stefano avesse rifiutato il ricovero, quest’ultimo fu poi compiuto nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini e per sei giorni i suoi familiari non ebbero alcuna sua notizia, fino alla sua morte.
Fu quello l’inizio del fallimento dello Stato: la sua morte è stata motivo di molteplici anni di processi comprendenti 45 udienze, 120 testimoni e decine di consulenze tecniche. Dopo la morte di Stefano Cucchi, il personale carcerario negò di avere esercitato violenza su di lui, e furono formulate varie ipotesi riguardo la sua morte: fu supposto che il suo stato fisico cagionevole fosse dettato dalle conseguenze dettate da un abuso di droga o per il proprio rifiuto di ricoverarsi all’ospedale Fatebenefratelli. Nel frattempo, per contrastare qualsiasi forma di dichiarazione fallace, i familiari pubblicarono alcune foto del giovane scattate in obitorio, nelle quali erano visibili molteplici traumi contusivi e il suo stato di denutrizione.
Le indagini preliminari sostennero che la causa della sua morte fosse la mancata assistenza medica su una marcata ipoglicemia.
Furono indagati i tre medici dell’ospedale Sandro Pertini: Aldo Fierro (primario), Stefania Corbi e Rosita Caponnetti, la cui difesa dichiarò che era stato il giovane a rifiutare le cure. Furono successivamente arrestati nel 2013 per omicidio colposo, insieme ad altri medici (Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia di Carlo) che lo ebbero in cura durante la sua degenza all’ospedale Pertini.
A settembre 2015, la Procura della Repubblica di Roma riaprì un fascicolo d’indagine sul caso affidandolo al procuratore Giovanni Musaro. Tre mesi dopo, il GIP dispose una perizia per stabilire le cause della morte di Stefano Cucchi: i periti individuarono due possibili cause, cioè l’epilessia e il globo vescicale causato dalla frattura della vertebra sacrale, a sua volta dovuta al pestaggio da parte dei carabinieri.
Il 17 gennaio 2017, concluse le indagini preliminari, fu richiesto il rinvio al giudizio per omicidio preterintenzionale e abuso di autorità nei confronti dei militari Alessio di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, accusati di aver colpito Cucchi con schiaffi, pugni e calci, facendolo cadere e procurandogli lesioni divenute mortali per la condotta omissiva da parte dei medici curanti.
Il 20 giugno 2018 Francesco Tedesco denunciò ignoti alla procura della Repubblica per la scomparsa di un’annotazione di servizio da lui redatta il 22 ottobre 2009 da dover essere indirizzata ai suoi superiori, nella quale descriveva di avere assistito al pestaggio di Stefano presso la caserma della Compagnia Roma Casalina da parte dei colleghi Di Bernardo e D’Alessandro, a cui lui personalmente aveva cercato di porre fine.
Solo il 4 aprile 2022, la Corte Suprema di Cassazione ha condannato in via definitiva per omicidio preterintenzionale i carabinieri Di Bernardo e D’Alessandro, riducendo loro la pena a 12 anni di reclusione.
La storia di Stefano Cucchi in questi anni è stata oggetto di strumentalizzazione, soprattutto da parte di una fascia della politica italiana, che all’epoca difese a spada tratta l’operato delle forze dell’ordine.
L’allora ministro della giustizia Angelino Alfano sostenne che Cucchi fosse morto in carcere per una caduta, il sottosegretario dell’epoca Carlo Giovanardi dichiarò invece che fosse morto per anoressia e tossicodipendenza (successivamente pentendosi, chiese scusa ai familiari) e infine l’ex ministro degli interni Matteo Salvini dopo la sentenza di condanna dei carabinieri del 2019 rilasciò questo commento: «il caso dimostra che la droga fa male».
Il caso quindi è diventato in breve tempo mediatico, anche grazie al ruolo della sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, che il 25 settembre 2022 è stata eletta senatrice della Repubblica alle elezioni politiche. Il suo ruolo è stato fondamentale: si è esposta continuamente e le sue parole sono state spesso considerate «illazioni contro le forze dell’ordine».
Dunque, quella della famiglia Cucchi è stata una ferita aperta per 13 anni: hanno condiviso con tutti una delle parti più riservate della propria quotidianità, cioè la razionalizzazione di un lutto, facendo in modo che se ne facesse un buon uso pubblico. Hanno dato voce a qualcuno che della propria voce era stato privato, per violenza e abuso di potere.