Del: 15 Novembre 2022 Di: Laura Colombi Commenti: 0
Giradischi, gli album consigliati di novembre

Il 15 di ogni mese, 5 album per tutti i gusti: Giradischi è la rubrica dove vi consigliamo i dischi usciti nell’ultimo mese che ci sono piaciuti.

Kalak, Sarathy Korwar (Leaf label)

L’ultimo album di Sarathy Korwar, percussionista, compositore e produttore statunitense, ci porta nel mondo della musica elettronica indo-jazz. Con questo lavoro, Korwar dimostra di saper rielaborare in modo sapiente svariati motivi della musica classica indiana, e ciò che ne risulta per chi ascolta è un bell’arricchimento culturale. Pensato nei minimi dettagli per l’ascoltatore, Kalak è come una pietanza servita calda al punto giusto, e la cui ricetta viene illustrata nella prima traccia, Recipe to Cure Historical Amnesia. Un lavoro militante, lo si capisce anche dai titoli – in merito, impossibile non citare una delle tracce più belle, intitolata Utopia is a Colonial project: ipnotica e a nostro modo di vedere attualissima. Un album musicalmente molto interessante, capace persino di stimolare riflessioni.

Comradely Objects, Horse Lords (Rvng)

Un album rock tutto da ballare è Comradely Objects, con il quale gli Horse Lords scrivono una sorta di inno alla variazione. E in questo senso Zero Degree Machine, traccia d’apertura, rappresenta un vero e proprio manifesto. L’album, il quarto per la rock band di Baltimora, può sembrare il classico lavoro sperimentale un po’ ardito, e in effetti è un po’ complicato capire dove questi “oggetti” andrebbero collocati. Però tutto insieme funziona alla grande, con le sue percussioni al posto giusto e pure sorprendenti, con le sue tante influenze. Quando non si lasciano andare in virtuosismi fini a sé stessi (come nel caso di May Brigade, andate avanti senza farvi scoraggiare), fiati e chitarre ci regalano tracce apprezzabilissime, come Mess Mend e Rundling. L’effetto finale, lo ammettiamo ignorandone il perché, è un po’ quello di un ritorno ai novanta. Ma di quelli che non dispiacciono affatto.

De todas las flores, Natalia Lafourcade (Sony) – recensione di Gabriele Benizio Scotti

Un disco estremamente elegante da una delle cantautrici messicane di punta. Da todas las flores presenta una forte componente folk, a cui vengono uniti elementi tradizionali della musica messicana e jazz. L’anima pop che sta alla base del disco non intacca minimamente l’eleganza dei brani, la profondità delle composizioni mai scontate e la delicata atmosfera che si va a formare lungo tutta l’ora di ascolto. Magistrale l’apertura con gli archi nella prima traccia, toccanti le tinte di Pajarito colibrí ed estremamente coinvolgente la sensualità di brani come Mi manera de querer. Ennesimo lavoro ben riuscito di una artista già molto apprezzata, ma che a questo giro è riuscita a superarsi ulteriormente con quello che è probabilmente il suo lavoro più riuscito.

I didn’t mean to haunt you, Quadeca (deadAIR) – recensione di Gabriele Benizio Scotti

Quadeca ha iniziato facendo un pop rap abbastanza standard e l’anno scorso aveva leggermente cambiato il tiro proponendo un qualcosa di più interessante ma non del tutto convincente. Quest’anno sembra aver trovato una strada ben delineata, e ci presenta un pop elettronico con tinte di folktronica, glitch pop e ambient. Il disco risulta un mischione che funziona, forse l’unica parte che risulta fuori posto sono i rimasugli rap che non ci azzeccano molto col resto della produzione, ma il disco riesce ad ascriversi a tutto questo filone di pop elettronico new age che gioca ad essere stravagante. Ma sono proprio le influenze folk a dare una consistenza a questo disco che lo distanzia da altre produzioni di questo stampo, non tanto i continui suoni che interferiscono nel tappeto sonoro di continuo o le ricercate stranezze che non sempre convincono. La strada ad ogni modo sembra essere quella giusta, c’è molto da migliorare ma è un lavoro sicuramente degno di nota.

The Car, Arctic Monkeys (Domino) – recensione di Giulia Scolari

A distanza di quattro anni dall’ultimo album, gli Arctic Monkeys ritornano con l’annuncio di un nuovo album, seguito da un nuovo tour mondiale. The Car è un album complesso, con un’atmosfera difficile da cogliere: nasce a partire da un’intesa dal punto di vista musicale e non mira a raccontare una storia, quanto a riportare diverse fotografie di momenti, pensieri, emozioni altrimenti passeggere.

Molto interessanti, a livello di tematiche più che di sound, sono Sculptures of Anything goes e Big ideas, che parlano dell’esperienza della band ad anni dal cambiamento netto di stile. Per la prima volta il dispiacere dei fans viene affrontato e viene spiegato chiaramente (per quanto chiaramente possano risultare le metafore pindariche degli Arctic Monkeys) che “chi li ama li segua”, perché loro non torneranno indietro né ai sound di AM, né ai tour mondiali dei loro anni d’oro. La fotografia più importante è sicuramente quella rappresentata – letteralmente – da The car, il brano nato proprio dalla foto scattata da Matt Helders, che ha suscitato in Turner un’emozione fortissima al pensiero dei suoi ricordi d’infanzia e dei viaggi in macchina con la famiglia. Impossibile non citare anche Mr Schwartz, inspiegabilmente a fondo album, che è un brano veramente ben strutturato, penalizzato perché inserito tra due brani lenti con basi troppo simili, ma molto meno significativi.

Per quanto gli Arctic Monkeys non vogliano più essere quelli di un tempo, è impossibile non riconoscere che il miglior brano sia proprio quello più simile ai sound di AM: Body paint, una canzone strutturata su un minuscolo dettaglio – una macchia di tintura – che fa crollare un castello di carte e scovare un tradimento. Da te stesso non ci puoi scappare neanche se sei Alex Schwartz: sperando di non farsi scoprire, Tuner sembra chiudere l’album come chi non vuole rivelare niente di più, un po’ infastidito.

“If that’s what it takes to say goodnight, then that’s what it takes”

Laura Colombi
Mi pongo domande e diffondo le mie idee attraverso la scrittura e la musica, che sono le mie passioni.

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