La vida es sueño. Con queste parole Calderón de la Barca ha consacrato la storia di Sigismondo, principe di Polonia sospeso a metà tra realtà e illusione, tra profezie nefaste, rivolte popolari e un narcotico che gli annebbia ogni certezza percettiva, ogni giudizio sulle proprie intemperanze.
I sogni sono la cartina al tornasole della nostra esistenza, per quanto non vi badiamo granché. Libero dalle castrazioni dell’io, di notte l’inquilino del piano di sotto che un altro Sigmund chiamò inconscio compone arabeschi paradossali, suggerisce scorciatoie insospettate, dà l’assenso o meno alle ipotesi della mente.
Spesso si entra in sogno per via marittima, discendendo nei flutti del sé come nel calore di un ritrovato utero materno. Altre volte, se abbiamo paura dell’ignoto o di qualche emozione che non sappiamo arginare, finisce in burrasca e con l’oceano che ci inghiotte. Capita pure di avere premonizioni. Di sentire chi ci pensa, in che termini. È un tipo di sogno che, se lo si accoglie senza chiamarlo, si ripresenterà con più frequenza, come un fedele consigliere alla corte del suo sovrano. I sogni sono uno strumento di conoscenza: è per questo che il maligno ci fa visita anche lì, e un bravo indovino separa con cura le intuizioni dalle insinuazioni.
Le persone scettiche dicono si tratti di una forma di intelletto tanto potente da rasentare l’immediatezza dell’istinto. Chi non vuole accordare troppi meriti alla presunzione umana, al contrario, sostiene che la ragione senza fiducia non basti, e che per vedere bisogna prima credere.
Sono qualità che Jorge Luis Borges, scrittore del Novecento argentino, di sicuro possedeva entrambe. Richiudere un suo libro, che sia L’Aleph o Finzioni o Il libro di sabbia, lascia le stesse sensazioni di un risveglio brusco: della tempesta di immagini che siamo sicuri fossero lì fino a un momento fa non resta che un pulviscolo sottile, disperso presto nel disincanto della veglia. Ricordiamo il sapore della sua scrittura in eterno, ma se si vuole ricostruire la trama bisogna rileggere daccapo.
Mille storie evanescenti si compongono e rigirano sul fondo del caleidoscopio borgesiano, in un rigore geometrico che rasenta la follia. Funes si impiglia nella ragnatela della memoria, le storie poliziesche si slabbrano nel tempo, Otàlora capisce all’ultimo che gli hanno concesso ogni lusso, perfino l’amore, solo perché dal primo istante è stato condannato a morte. Dal garbuglio generale emergono epifanie effimere: per un attimo le biforcazioni del cielo si illuminano insieme, e la realtà appare chiara nella sua doppiezza e finzione. A risarcirci di ogni atrocità, del caos che governa la lotteria dei viventi.
È significativo che nella produzione borgesiana non figurino romanzi o storie lunghe. Come fossero tanti flash di uno stesso sogno, uomini e creature tra il fantastico e il mostruoso si susseguono sotto forma di racconti brevi – forse la struttura narrativa più adatta a riflettere, nei suoi tasselli mai combacianti, la frammentarietà del tutto. La violenza, autobiografia politica dell’Argentina contemporanea, è un retroscena soffuso. Anche la trama non è il punto focale, e quando sembra acquistare corpo ecco che alla coerenza del ricamo sfuggono le prime sfasature, un dettaglio che non quadra, qualcun altro che si ripete.
La scrittura borgesiana ci getta in un cosmo retto da leggi tanto razionali quanto assurde e mutevoli. A suo modo, quella di Borges è una scrittura di ricerca, che poi è una maniera molto filosofica di intendere la letteratura.
Dell’universo che ci contiene e portiamo racchiuso nelle penombre della nostra interiorità si può dire in molti modi. Uno di questi è raccontare le creature oniriche che diventano figure dei tarocchi, talismani linguistici comuni a più idiomi, topoi letterari che rimbombano tra gli scaffali delle biblioteche.
Nella primavera seicentesca della produzione barocca, Giovan Battista Marino rispondeva a chi lo accusava di plagio di aver imparato a leggere col «rampino»: un gancio per fare propri i miraggi di altri, riecheggiando i maestri con ingegnose variazioni – non è forse il criptico simbolismo della fantasia un pozzo in cui tutti siamo immersi?
I racconti di Borges celano le stesse inquietudini: il discorso narrativo è interpolato da visioni bibliche e omeriche, pieno di suggestioni da ogni dove, in un’interferenza estrema dei tempi verbali, di realtà e allucinazione. L’intera storia del mondo si dipana nei secoli ma si può ridurre a una capocchia di spillo, a una dimensione di puntualità che è quella dell’eterno presente, dell’attuale gnomico e fuori dal tempo.
Questo raffinatissimo gioco citazionale è ben altro da uno sfoggio erudito, nome che purtroppo si dà a una cultura percepita come sterile e ripiegata su di sé.
L’intellettuale si accosta allo scibile, capitola di fronte alla sua imponenza, e quando supera lo sconforto cerca con disperazione dialoghi da lontano, complicità con la scrittura d’altri. Lo fa in un divertissement serissimo, forse un po’ maniacale ma al fondo umano: vicino all’uomo nelle sue angosce universali, dalla morte al destino, dal senso di vuoto sotto ai piedi all’umiltà cognitiva a cui tocca sempre arrendersi.
Quasi che, perdendosi tra i giardini pensili di Babilonia o lungo i pendii di un anfiteatro senza nome, si giungesse sempre a uno stesso altrove. A una verità che stenta a mostrarsi se non per indizi, forse conosciuta e poi dimenticata alla nascita, salvo pochi frantumi intuitivi e quel sentimento di incompletezza perenne che ci grava col suo peccato originale. Rintracciabile sì, ma al prezzo dell’approssimazione, come una volta di stelle che abbiamo perso e riaffiora sbiadita nella sua nostalgia. E ci lascia lì appesi a cercare un senso di cui sospettiamo l’esistenza, soli nell’eterna quête del conoscere, con l’ingenua pretesa di un bambino che abbraccia a metà un tronco di ulivo.
Dico che non è illogico pensare che il mondo sia infinito […] io m’arrischio a insinuare questa soluzione: la Biblioteca è illimitata e periodica. Se un eterno viaggiatore la traversasse in una direzione qualsiasi, constaterebbe alla fine dei secoli che gli stessi volumi si ripetono nello stesso disordine (che, ripetuto, sarebbe un ordine: l’Ordine). Questa elegante speranza rallegra la mia solitudine.
[Finzioni, 1944]