Arlecchino, servitore di due padroni, commedia-simbolo delle regie strehleriane, è tornato finalmente in scena al Piccolo Teatro di Milano. L’edizione proposta, curata da Ferruccio Soleri, storico interprete della maschera, che ha incarnato fino al 2018, con la collaborazione di Stefano de Luca, continuerà a intrattenere decine e decine di spettatori fino al 22 dicembre.
L’Arlecchino ha debuttato esattamente 75 anni fa, durante la prima stagione teatrale dello stabile meneghino, il 24 luglio 1947. È considerato un unicum nella tradizione teatrale italiana, siccome si tratta di una tipologia teatrale rara nel nostro Paese: è infatti uno spettacolo di repertorio, ossia una pièce riportata periodicamente in scena sempre uguale a se stessa, nella struttura e nel messaggio originale, ma con l’apporto di qualche modifica.
La commedia in questione è stata infatti riproposta in ben 10 edizioni ed è sopravvissuta a Strehler che, mancato improvvisamente nel dicembre 1997, non ha potuto assistere alla rappresentazione dell’ultima edizione ideata.
Si può dire, inoltre, che l’Arlecchino simboleggi l’idea teatrale di cui il regista triestino si era fatto promotore.
Infatti, quando Strehler ha deciso di recuperare il testo di una commedia secondaria di Goldoni e di rinnovarla, lo ha fatto con il proposito di presentare uno spettacolo di cultura rivolto ad una collettività indistinta: da qui l’ideale teatrale, condiviso anche dal suo stretto collaboratore Grassi, nonché altro importante fondatore del Piccolo, di un servizio pubblico rivolto non tanto ad un’élite ma ad una platea socialmente variegata.
Strehler, tuttavia, non si è limitato unicamente al recupero del testo goldoniano: assieme ai suoi collaboratori ha compiuto un lavoro di riscoperta delle tecniche della commedia dell’arte, basate sulla capacità attoriale di mostrare il proprio talento mediante virtuosismi ginnico-acrobatici e gestuali del tutto improvvisati, sviluppati sulla scena a partire dalle indicazioni generiche di un canovaccio.
L’Arlecchino di Strehler, tuttavia, non è una commedia basata sulla mera improvvisazione: le sequenze mimico-acrobatiche, infatti, sono state codificate rigorosamente dagli attori e dal regista, a partire dalle indicazioni goldoniane delle «piegature» della maschera protagonista, e dunque dalle sequenze dei lazzi, impensabili però senza la collaborazione e l’intervento del pubblico.
L’attore, infatti, nelle scene più comiche, si rivolge agli spettatori e, sulla base della loro reazione, adegua il tempo di esecuzione della gag che può avere quindi una durata variabile: se il pubblico ride e si diverte, si continua con il «numero», altrimenti lo si interrompe quasi subito. Strehler, dunque, in ossequio alla tradizione della commedia dell’arte, ha lasciato spazio all’intervento personale e all’inventiva dell’attore, oltre che alla sua capacità di improvvisazione.
Nell’edizione proposta al Piccolo, nel dicembre dell’anno corrente, che vede Enrico Bonavera nel ruolo della celebre maschera di Arlecchino, alternata fino al 2018 con Soleri, si continua a riconoscere la regia a Strehler, mentre si attribuiscono le operazioni «artigianali» di montaggio al curatore.
Soleri ha deciso di combinare diversi elementi delle passate edizioni a partire da quelle metateatrali per arrivare a quella dell’Addio (1987). Nella commedia si assiste al canonico susseguirsi di equivoci e intrighi, provocati nientemeno da Arlecchino che, a causa della fame atavica che lo contraddistingue (è disposto a tutto pur di avere un po’ di polenta in più in pancia), decide, come suggerisce il titolo stesso, di mettersi al servizio di due padroni.
Lo spettacolo, come nella terza edizione strehleriana del 1956, si inserisce in un contesto che rimanda inevitabilmente al mondo dei Comici dell’Arte: la scena che si apre di fronte al pubblico è, infatti, metateatrale. Al centro del palco è possibile notare una pedana di legno rialzata, ai cui lati si situano gli attori che, una volta giunti nel fuoriscena, si tolgono la maschera, commentano ciò che avviene in scena, suggeriscono e collaborano agli effetti scenici.
Strehler, nell’edizione in questione, in omaggio al teatro di Brecht, non ha voluto rappresentare dunque solo uno spettacolo nell’atto di compiersi, ma ha persino inserito ciò che accadeva solitamente ai lati del palco rudimentale dei comici, con l’intento di storicizzare la messinscena. Lo spettatore quindi non solo assiste alla finzione teatrale ma si fa testimone dello svelamento della finzione, raggiunta grazie alla contestualizzazione storica.
Anche la scenografia ricalca quella della Commedia dell’Arte: il fondale alle spalle degli attori è dipinto e provvisto di tagli per permettere la fuoriuscita degli attori. Questo stratagemma verrà abbandonato nelle edizioni successive e ripreso solo nella nona edizione, quella del bicentenario della commedia.
La metateatralità è suggerita anche dalle scene che fanno da contorno agli atti, dove un vecchio suggeritore accende e spegne i lumi della ribalta, seguito dall’attore che scandisce l’inizio dell’atto con un bastone (per richiamare il silenzio del pubblico).
Nel caso del primo atto si assiste invece al balletto di benvenuto degli attori, preparato per gli spettatori. Questi éscamotages, usati ancora una volta per storicizzare lo spettacolo, sono stati messi a punto da Strehler per l’edizione del 1973, rappresentata a Villa Reale, a Milano.
Il finale invece, dove Arlecchino scende dal palco, rompendo la quarta parete, per scappare in mezzo al pubblico, inseguito dagli altri personaggi che hanno scoperto l’imbroglio del servitore sempre affamato, viene ripreso dalla quinta edizione e da quella parigina del 1977.
A differenza di quanto accade in quest’ultima, realizzata al teatro Odéon della capitale francese, la scena finale non è affatto melanconica e pessimistica: se da una parte è vero che si ripristina l’oscurità dell’edizione parigina, con il protagonista che spegne lentamente le luci della ribalta rivolgendosi direttamente al pubblico, dall’altra non si può fare a meno di notare che l’atmosfera, anche quando a scaldare l’oscurità è un’unica candela, continua ad essere distesa, ilare e quasi confidenziale.
L’edizione odierna, quella del «dopo», ripropone inoltre alcune invenzioni che Strehler aveva inserito nella commedia goldoniana, come quella nel lazzo della lettera:
in questa sequenza Arlecchino, per recuperare un piccolo pezzo di mollica dalla gola, da usare per sigillare una lettera che era stata aperta, tenta di ripescarlo mediante l’uso di uno spago. Si può citare anche lo spassoso lazzo della mosca che il regista triestino ha recuperato non tanto dal testo goldoniano ma dalle testimonianze d’epoca dei comici.
La ripresa dello spettacolo-simbolo del Piccolo, particolarmente sentita in questi ultimi due anni a causa dello stop obbligato imposto dalla pandemia Covid-19, e il suo continuo successo, garantito da una compagnia magistrale e da un interprete eccezionale, Enrico Bonavera, contraddistinto da una dinamicità invidiabile, simboleggiano la capacità del teatro di resistere e di procurare eternamente serenità e ristoro a chiunque, e quindi di portare luce, anche quando sulla scena rimane acceso solo un lieve barlume.
L’Arlecchino non può quindi che rappresentare un’arte, quella del teatro, che risulta essere sempre al passo con i tempi, perché detiene un linguaggio che non invecchia mai e fa leva sulla capacità di continuare a emozionarsi e, in questo caso, a divertirsi. Un’arte dunque intramontabile, esattamente come il regista dell’Arlecchino, il grande maestro Giorgio Strehler.