Nel 2022 le forze israeliane hanno ucciso 127 palestinesi, tra cui molti bambini: questo il bilancio delle vittime del conflitto israelo-palestinese che ha portato le Nazioni Unite a definire il 2022 come il peggior anno dal 2005 per numero di uccisioni di palestinesi.
Sono passati 55 anni dalla Guerra dei sei giorni e dall’inizio dell’occupazione da parte di Israele della Cisgiordania, della Striscia di Gaza e di Gerusalemme est, eppure la violenza perpetrata dalle forze israeliane a danno dei palestinesi non solo si è mantenuta costante nel tempo, ma è anche andata incontro a un processo di intensificazione e sistematizzazione che ha portato alla formazione di un ambiente coercitivo all’interno dei Territori Palestinesi occupati.
È proprio a fronte di questi drammatici dati e in occasione della Giornata internazionale di solidarietà con la popolazione palestinese del 29 novembre, che l’organizzazione non governativa Amnesty International ha avanzato la richiesta di un’azione globale volta a condannare e a mettere fine a quello che ha definito come un «sistema di apartheid» imposto da Israele sui palestinesi in tutte le aree sotto il suo controllo.
Si tratta di un’affermazione forte, di una ferma accusa che addossa agli israeliani il profilo di aggressori spregiudicati, ma, soprattutto, si tratta di un’accusa che porta a chiedersi che cosa si intenda per apartheid e se sia corretto definire come tale l’occupazione israeliana.
Per tentare di rispondere a tale quesito è possibile mettere a confronto quanto riportato dalla Convenzione Internazionale sull’Eliminazione e la Repressione del Crimine di Apartheid, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1973, e il rapporto di una Commissione d’inchiesta, istituita dal Consiglio per i Diritti umani nel 2021, che ha portato avanti un’indagine su tutte le presunte violazioni del diritto internazionale umanitario nei Territori Palestinesi occupati.
Con questo rapporto, reso pubblico il 20 ottobre 2022, la Commissione è arrivata a definire come illegale l’occupazione israeliana, mettendo in luce quali siano i motivi che l’hanno fatta arrivare a tale conclusione. Ora, se si analizzano questi motivi alla luce di quanto affermato dalla Convenzione, risulta evidente come ci siano dei significativi punti di contatto tra le politiche di discriminazione contemplate dal termine «crimine di apartheid» e quanto compiuto dalle autorità israeliane dall’inizio dell’occupazione.
In particolare, la Convenzione afferma che uno fra gli «atti disumani» commessi allo scopo di dominare un gruppo razziale è quello di espropriare i beni immobili appartenenti ai membri di quel gruppo e di prendere misure, anche di natura legislativa, mirate a dividere la sua popolazione. Che cos’ha fatto Israele dall’inizio dell’occupazione se non portare avanti una politica volta a frammentare e isolare il popolo palestinese e a espropriarlo di terre e risorse naturali?
La Commissione d’inchiesta ha rilevato come oltre un terzo di Gerusalemme Est sia stato espropriato per la costruzione di insediamenti israeliani, mentre in Cisgiordania dal 1967 sarebbero stati espropriati oltre 2 milioni di dunam di terra:
Privare qualcuno della propria terra non significa forse violare e smembrare la sua identità? Inoltre, l’espansione degli insediamenti israeliani ha comportato la suddivisione del territorio palestinese in tante piccole enclave, ognuna isolata e separata dalle altre, a causa dei tanti e crescenti insediamenti di coloni ebrei. Questa frammentazione ha determinato la distruzione e la deformazione del territorio palestinese, oltre che l’alterazione della composizione demografica causata dal continuo spostamento forzato della popolazione palestinese da determinate aree.
A tal proposito, la trasformazione della composizione demografica costituirebbe, secondo la Commissione d’Inchiesta, il crimine contro l’umanità di espulsione o trasferimento forzato di popolazione, ai sensi dell’art. 7, comma 1, lettera d), dello Statuto di Roma.
Ma cosa legittima Israele a rendersi protagonista di queste spregiudicate azioni e a portare avanti una politica che, alla luce di quanto detto, si profila come «crimine di apartheid»?
Forse il diritto garantitogli dalla Bibbia di prendersi, sia pure con la forza, la Terra Promessa? D’altra parte, qualsiasi atto compiuto dal popolo ebraico non può essere suscettibile di critica, a meno che non ci si voglia macchiare di antisemitismo.
Queste sono le dannose conseguenze di chi, in mala fede, sfrutta la sofferenza subita dal suo popolo per rivestirsi di quel manto che rende le vittime intoccabili e immuni rispetto a qualunque obiezione avanzata: troppo spesso si tende a concedere e a riconoscere come lecito tutto quanto compiuto da chi ha incontrato la violenza e il dolore, persino farsi autore di vere e proprie pratiche di segregazione e discriminazione razziale.
Come potrebbero essere definite altrimenti le continue restrizioni ai movimenti imposte ai palestinesi, lo sfruttamento della loro terra e risorse naturali e la demolizione delle loro case e strutture di sostentamento? Ad oggi più di 8.500 strutture sono state demolite nei Territori Palestinesi Occupati: i palestinesi, infatti, non essendo in gran parte in grado di ottenere un permesso di costruzione, costruiscono senza, andando incontro a una demolizione quasi certa. Nel decennio 2009-2018, ad esempio, solo il 2% circa delle loro richieste di permessi di costruzione è stato approvato.
Ancora più sconcertante è stata l’estensione della legge israeliana in Cisgiordania, creando di fatto, e di diritto, un doppio sistema legale che è andato ad avvantaggiare gli israeliani e, di conseguenza, a discriminare i palestinesi.
Tra i due ordinamenti giuridici infatti esistono significative differenze, in particolare per quanto riguarda il diritto penale: ad esempio, secondo la legge militare, tenere e sventolare bandiere palestinesi durante le manifestazioni e le assemblee dei palestinesi è considerato una minaccia alla sicurezza. E secondo la Convenzione anzidetta, privare i membri di un gruppo razziale del diritto alla libertà di espressione e del diritto alla libertà di riunione e associazione politica significa essere fautori di atti di discriminazione razziale.
Ma ora, dimenticando per un momento i dati raccolti dalla Commissione d’inchiesta, è possibile comprendere, forse anche meglio, quello che il popolo palestinese ha sofferto e continua a soffrire.
È possibile farlo porgendo ascolto alla voce di un uomo, al canto di strazio e di lamento innalzato da chi ha visto la sua terra venire distrutta e stuprata giorno dopo giorno:
La mia patria è una ferita aperta da mille anni inchiostro caldo che scrive con dignità una bella e triste melodia Manda in estasi la coscienza ingannevole del mondo Fa cadere lacrime di coccodrillo La mia patria è un cavallo purosangue che ha dato un nuovo senso al significato della pazienza Cavalca con il vento su una strada impervia E non arriva … arriverà Resiste e sopporta gli schiamazzi e gli scherzi del mondo E ci ride sopra La mia patria è la densità della pazienza… lo stesso colore… lo stesso sapore La mia patria un milione di amanti… un milione di sognatori Vogliono che la mia patria sia un pallone ottagonale Calciato da un bambino viziato… Per far ridere Le scimmie e porci.
Queste le parole del poeta e attivista palestinese Odeh Amarneh, nella poesia La mia patria (2016), parole che fanno percepire e provare con immediatezza quale sia l’entità dell’abuso subito e quale la pazienza di un intero popolo messa continuamente alla prova. Fino a che punto può la pazienza rimanere integra e non trasformarsi in esasperazione e poi rabbia?
Questi interrogativi non possono che rimanere aperti; quello che sappiamo con certezza, in considerazione di tutti i dati raccolti dalla Commissione, è che l’occupazione palestinese è un «crimine di apartheid» e, in quanto tale, un crimine contro l’umanità.