Le norme introdotte dal governo italiano vogliono circoscrivere il salvataggio dei migranti a quanto previsto dal diritto internazionale, con alcune regole: se ti imbatti in un’imbarcazione e salvi delle persone, le devi portare al sicuro, quindi non le tieni a bordo della nave mentre continui a fare salvataggi multipli fino a che la nave non è piena, perché quello non significa mettere al sicuro le persone, soprattutto non vuol dire fare salvataggio fortuito di naufraghi […]. Lo facciamo per rispettare il diritto internazionale ma anche i migranti, perché se qualcuno sta rischiando la vita ha diritto ad essere salvato, ma cosa diversa è farsi utilizzare dalla tratta degli esseri umani del terzo millennio e continuare a far fare milioni a scafisti senza scrupoli che abbiamo conosciuto in questi anni e che il governo italiano intende combattere.
Così Giorgia Meloni ha descritto sui propri canali social le norme contenute nel decreto approvato lo scorso 28 dicembre dal Consiglio dei Ministri, il quale, in continuità con il decreto sicurezza bis adottato dal governo Conte nel 2019, ha portato ad una stretta significativa sull’operato delle navi umanitarie nel Mediterraneo.
Nel decreto si afferma che le navi impiegate in via non occasionale nelle attività di ricerca e soccorso in mare sono tenute a richiedere all’autorità competente, nell’immediatezza dell’evento, l’assegnazione di un porto di sbarco, il quale dovrà essere raggiunto senza ritardo per il completamento dell’intervento di soccorso, come già previsto da norme internazionali sul diritto del mare e come già di fatto avviene.
Oltre a questo, però, il decreto prevede che, in caso di operazioni di soccorso plurime, “le operazioni successive alla prima devono essere effettuate in conformità agli obblighi di notifica e non devono compromettere l’obbligo di raggiungimento, senza ritardo, del porto di sbarco”.
La norma, che colpisce le ipotesi di soccorsi plurimi e di trasbordo (cioè quando una nave più piccola compie un soccorso e poi trasferisce su una nave più grande i naufraghi per poter effettuare ulteriori salvataggi), ha come finalità dichiarata quella di evitare che le modalità di ricerca e soccorso in mare da parte della nave possano “aggravare situazioni di pericolo a bordo” o “impedire di raggiungere tempestivamente il porto di sbarco”. Tuttavia, le motivazioni alla base di una tale previsione, il cui rispetto potrebbe portare a violazioni di un obbligo fondamentale del diritto del mare, ovvero quello di intervenire e prestare soccorso nel caso in cui venga segnalata la presenza di un’imbarcazione in pericolo, sembrano essere ben altre.
È evidente, infatti, che richiedere alle navi delle ONG di recarsi immediatamente al porto di sbarco senza effettuare ulteriori salvataggi – unitamente all’assegnazione, da parte del governo, di porti sempre più lontani dalle aree in cui si svolgono le attività di ricerca e soccorso in mare – ha come principale effetto quello di tenere le navi umanitarie lontane dal Mediterraneo centrale, nonché di rendere più difficile e costosa la loro attività.
Il che comporta, però, una drastica riduzione delle possibilità di salvare vite in mare, soprattutto se si considera che quelle imbarcazioni, “tolte di mezzo” le navi delle ONG, difficilmente verranno soccorse da qualcun altro.
Le navi umanitarie cercano infatti di coprire, per quanto possibile, uno spaventoso vuoto che si è venuto a creare nel Mediterraneo da quando è venuta meno l’operazione Mare Nostrum, nata nel 2013 durante il governo di Enrico Letta e cui si è posto fine, nonostante il gran numero di persone tratte in salvo e a causa dei costi piuttosto elevati, il 31 ottobre 2014. Mare Nostrum è stata poi sostituita dall’operazione Triton dell’Agenzia Frontex, nel cui mandato non compare più alcuna attività di ricerca e soccorso in mare, bensì di solo controllo delle frontiere, con un conseguente arretramento del pattugliamento dalle coste libiche, nel tentativo di allontanare dal Mediterraneo navi che, qualora dovessero imbattersi in un’imbarcazione in distress, sarebbero comunque tenute a prestare soccorso, secondo quanto previsto dal diritto internazionale.
È dunque nelle decine e decine di miglia nautiche lasciate prive di navi tra l’Italia, Malta e la Libia in seguito allo smantellamento di Mare Nostrum – quando i governi hanno deciso che fosse più importante impiegare le somme a propria disposizione per barricarsi all’interno della “fortezza Europa”, piuttosto che per salvare vite umane –, che le ONG hanno cominciato ad operare, perché, a differenza di quanto vorrebbe far credere chi parla delle navi umanitarie come di “taxi del mare”, accusandole di rappresentare un fattore d’attrazione, il Mediterraneo potrà anche essere svuotato di ogni nave in grado di prestare soccorso, ma le persone non smetteranno comunque di lasciare i propri paesi d’origine e l’inferno libico nel tentativo di raggiungere l’Europa, qualora la traversata dovesse rappresentare l’unico mezzo a loro disposizione.
Quello che è cambiato dopo Mare Nostrum, e che risulterà ancora più evidente qualora il governo dovesse riuscire a ridurre in modo significativo l’operatività delle navi delle ONG, è semplicemente che più persone finiranno per morire in mare.
Non dimentichiamo, infatti, che la rotta del Mediterraneo centrale continua ad essere la più letale tra quelle percorse per raggiungere l’Europa, con almeno 1.295 tra morti e dispersi da gennaio a fine ottobre 2022.
Tornando al decreto-legge adottato dal governo Meloni – che, ricordiamo, necessita di essere convertito in legge a pena di decadenza entro 60 giorni dalla sua approvazione, ma che nel frattempo è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale e risulta in vigore – possono essere identificate altre due previsioni problematiche. La prima riguarda l’imposizione alle navi di “avviare tempestivamente iniziative volte ad acquisire le intenzioni di richiedere la protezione internazionale”, affinché possa poi farsene carico il Paese bandiera della nave. Tuttavia, secondo il diritto internazionale non sono queste ultime a doversene occupare: «Le linee guida dell’Organizzazione Internazionale Marittima (IMO) sono chiare: qualsiasi attività al di fuori della ricerca e salvataggio deve essere gestita sulla terra ferma dalle autorità competenti e non dallo staff delle navi umanitarie», ha ricordato Emergency in un comunicato stampa.
L’ulteriore aspetto problematico risiede nelle sanzioni previste in caso di violazione delle norme contenute nel decreto: si tratta di multe fino a 50.000 euro per comandante e armatore, oltre al fermo amministrativo della nave e sua confisca in caso di recidiva. Contro il fermo amministrativo è ammesso ricorso, entro sessanta giorni dalla notificazione del verbale di contestazione, al prefetto, che provvede nei successivi venti giorni. Il passaggio dall’ambito penale – di cui al decreto sicurezza bis del 2019 – a quello amministrativo, fa sì che in grado di infliggere queste sanzioni sia un soggetto privo delle garanzie di indipendenza dei magistrati, dal momento che il prefetto dipende gerarchicamente dal Ministro dell’Interno in carica.
«Poiché il vero obiettivo (bloccare le navi) non è stato raggiunto in passato quando la cassetta degli attrezzi era quella penale, applicata da magistrati che in conformità al diritto internazionale finivano quasi sempre per concludere le proprie istruttorie in termini favorevoli ai soccorritori marittimi, ecco che allora si fa decidere ai prefetti una sanzione subito eseguibile, contro la quale saranno le ONG a doversi attivare per contestarne la legittimità al Tribunale amministrativo regionale, ma con a loro carico sia i non brevi tempi sia i costi, visto che in attesa dell’esito del ricorso le norme accollano all’armatore le spese di mantenimento della nave sotto fermo», ha osservato a riguardo Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera.
In conclusione, possiamo affermare che il decreto adottato dal governo Meloni, dal punto di vista degli sbarchi, non cambierà quasi nulla:
dalle navi delle ONG viene soccorsa infatti soltanto una percentuale minima (poco più del 10%, percentuale che si è ridotta ulteriormente durante il governo Meloni) delle persone che riescono ad arrivare in Italia, le quali lo fanno per lo più in maniera autonoma; inoltre, non sarà certo la mancanza di navi umanitarie a far cessare le partenze, poiché, come dimostrato ormai da diversi studi, non sono queste ultime a fare da pull factor, quanto piuttosto le buone condizioni meteo.
Perché, allora, prevedere un decreto di questo tipo? Anzitutto, questo è spiegabile in termini di consenso politico: si fa la guerra alle ONG, anche a costo di sacrificare migliaia di vite umane, perché c’è bisogno di rassicurare un elettorato di destra deluso dal mancato rispetto di numerose promesse fatte in campagna elettorale e che poi, nella manovra economica approvata a fine anno, non hanno trovato riscontro, tanto da far apparire come già vicina al proprio tramonto la classica “luna di miele” che solitamente, nei mesi successivi alle elezioni, caratterizza il rapporto tra il governo e il suoi elettori.
Un’altra ragione potrebbe poi essere rinvenuta nelle parole di Oscar Camps, fondatore dell’ONG Open Arms:
Il punto probabilmente è che la flotta civile rappresenta un problema che va ben oltre le operazioni di soccorso che opera. È la testimone inconfutabile delle violazioni dei diritti, quotidiane e reiterate, che l’Europa compie in accordo con stati illiberali, con dittature, con regimi, ai quali peraltro continua a dare un mucchio di denaro pubblico. Il vero problema è questo.