Del: 30 Gennaio 2023 Di: Thomas Brambilla Commenti: 0

A partire da febbraio 2022, in seguito all’invasione dell’esercito russo in Ucraina, nel mondo globalizzato contemporaneo si sono verificati una serie di mutamenti di equilibri preesistenti che, da un punto di vista geopolitico, garantivano determinati approvvigionamenti di risorse provenienti dagli stati più direttamente interessati dal conflitto: Ucraina e Federazione Russa. Quest’ultimi, esulando dal piano politico, riguardano a livello materiale l’apertura di due fronti di crisi: quello alimentare, che sta colpendo in maniera più netta alcune aree del mondo, e quello energetico, che invece interessa più direttamente l’Europa, che alle materie prime provenienti dalla Russia era ed è tutt’ora notevolmente legata.

Soffermandoci ora su questo secondo aspetto, la dipendenza energetica dalla Russia ha fatto emergere fin dall’inizio una realtà già ben nota ai vertici politici occidentali, che da anni dovevano fare i conti con il grande potere di ricatto politico ed economico che la Russia detiene essendo fornitore diretto di circa un terzo di tutto il gas importato dall’intera Unione europea (dati precedenti all’invasione). La necessità di creare un distacco politico dalla Russia per i paesi del patto Euro atlantico ha reso fin da subito evidente che l’unico modo per svincolarsi dalle sue forniture nel breve-medio termine fosse quello di lavorare al fine di ottenere una diversificazione delle fonti energetiche di cui ogni paese si rifornisce, unito ad un più generale dibattito sull’indipendenza energetica. In un secondo momento poi, è stato evidente come l’incertezza generata dai suddetti eventi geopolitici abbia portato ad un aumento generalizzato dei prezzi che, unito ad una manovra speculativa denunciata da più parti, che ha implicato anche un intervento dell’Antitrust, ha condotto all’attuale crisi energetica in corso oltre che ad un’ulteriore riflessione politica su come mantenere i prezzi dell’energia stabili nel tempo senza che essi siano vincolati agli sbalzi e alle speculazioni tipiche del mercato.

La risposta immediata del governo italiano, nel breve periodo necessariamente volta all’obiettivo della diversificazione delle fonti, è stata fin da subito quella di chiudere accordi con alcuni paesi nordafricani (Algeria ed Egitto in particolare) per una fornitura di materie prime energetiche per i prossimi anni a prezzi più convenienti a causa della vicinanza geografica. La missione italiana, iniziata già con il governo Draghi, è stata portata avanti dal nuovo governo Meloni. È infatti notizia di pochi giorni fa la visita di Giorgia Meloni in Algeria con l’obiettivo di aumentare ulteriormente il gas in arrivo tramite il gasdotto Transmed da quello che oggi è il nostro maggiore fornitore di gas (circa il 40% del totale).

Questa strategia, che sostanzialmente si prefigura come la creazione di legame geopolitico non più con la Federazione Russa ma con altri partner, è stata criticata da più voci poiché efficace solamente in un breve periodo ma non nel lungo termine. Nello specifico l’ambizione di svincolarsi dalla Russia può essere raggiunta anche in poco tempo, infatti a dicembre 2022 solo il 16% del gas in arrivo in Italia era di provenienza russa e questa è una quota relativamente bassa se si conta che l’ammontare proveniente dalla Russia in precedenza si aggirava circa attorno al 40%, ma il rischio è quello di vincolarsi allo stesso modo ad altri paesi autocratici che in un futuro potrebbero far valere sulle decisioni dei nostri governi il loro potere di ricatto inevitabilmente forte. In particolare nel caso algerino si tratta di un paese che ha una linea di politica estera piuttosto vicina a quella russa.

Chiaramente l’indipendenza energetica totale resta un miraggio lontano e nel breve periodo risulta particolarmente difficile trovare soluzioni efficaci, ma esiste una via percorribile che potrebbe unire allo stesso tempo l’esigenza di indipendenza energetica da paesi esteri a quella di ridurre l’impatto ambientale dei nostri consumi. Si tratta di una strada che fa riferimento al concetto più generale di localismo e comunità energetica. L’idea alla base di queste realtà si trova nel concetto di prosumer (“prosumatore”), ovvero l’unione delle figure di produttore di energia e consumatore della stessa. Le comunità energetiche, infatti, possono essere sviluppate liberamente da privati cittadini e associazioni e svolgono la loro funzione tramite la produzione di energia e la sua condivisione in un’ottica di autoconsumo, producendo sia una serie di benefici oltre a creare stabilità di prezzo e indipendenza dal mercato e, in una misura limitata, anche da paesi esteri e grandi centrali elettriche.

L’ultimo intervento pubblico di incentivo in materia è stato condotto nel 2020 dal governo Conte II, e oggi possiamo affermare con certezza che i finanziamenti sono troppo scarsi rispetto al necessario viste anche le contingenze storiche che ci spingono sullo sviluppo sempre maggiore di questa strada.

L’autoconsumo di piccole comunità non si fonda infatti su aspetti ideologici ma presenta due livelli di vantaggi, economici e ambientali.

Sul piano economico infatti si produrrebbe, dopo un corposo investimento, un grande vantaggio nel medio-lungo termine consistente in termini pratici nell’abbattimento dei costi energetici per tutti i membri della comunità poiché essi non sarebbero più legati ai prezzi fluttuanti delle materie prime. Inoltre, si andrebbe a contrastare il fenomeno della povertà energetica che è sempre una realtà più minacciosa per molti individui. Infatti, la struttura delle comunità energetiche porta ad una concreta massimizzazione dell’energia prodotta, minimizzando gli sprechi grazie ad una rete condivisa che permette a tutti i membri di usufruire dell’energia prodotta nei momenti in cui vi sono degli eccessi.

I benefici ambientali invece si riscontrerebbero in termini di riduzione radicale di emissioni inquinanti e climalteranti, visto che ogni comunità energetica si fonda essenzialmente sulla produzione di energia di tipo rinnovabile.

La realtà italiana descritta dal consueto report annuale di Legambiente ci permette di dedurre che nel nostro paese si sta verificando un buon aumento in termini di presenza e iniziative volte al consolidamento di progetti di comunità energetiche, se ne contano infatti 100 con un aumento del 59% fra giugno 2021 e maggio 2022, ma troppo spesso queste sono lasciate alle iniziative private e senza un marcato sostegno pubblico nell’ambito più generale delle politiche ambientali. Spesso, infatti, pur in presenza di un costante calo di prezzo dei pannelli solari (certificato a -87% negli ultimi 10 anni da Bloomberg New Energy Finance), l’investimento per la costituzione di una comunità energetica risulta essere troppo oneroso e i vantaggi economici in termini concreti si possono notare solo dopo qualche anno. In attesa di un governo che cominci a considerare l’investimento in comunità energetiche come un tassello fondamentale delle proprie strategie di politiche ambientali e mitigazione del cambiamento climatico, e che applichi i già noti piani e le direttive europee relative al tema, è bene comunque limitarsi ad indicare quella che sembra essere la strada più logica e benefica che riesca ad unire una molteplicità di necessità del momento e che, probabilmente, rimarranno tali a lungo

Thomas Brambilla
Sono studente in scienze politiche e filosofiche alla Statale di Milano. Mi piace riflettere e poi scrivere, e fortunatamente anche riflettere dopo aver scritto. Di politica principalmente, ma senza porsi nessun limite.

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