Del: 21 Gennaio 2023 Di: Alessandra Pogliani Commenti: 0

Radici racconta fatti, personaggi e umori della storia della Prima Repubblica italiana, dal 1946 al 1994. A questo link è possibile trovare gli articoli precedenti della rubrica.


Appena varcata la soglia di un supermercato, un trionfo di floridezza ortofrutticola ci si spalanca di fronte: una triade di piramidi d’uva, disposte in saggio equilibrio, con qualche grappolo che penzola ai lati e il cartellino delle offerte in cima a mo’ di bandiera. Il fascino di questa cornucopia moderna, che prosegue per il reparto scatolame fino all’angolo dei gelatini assortiti, forse non sta tanto nell’abbondanza, ma nella sua ordinata organizzazione. Tant’è che, se si escludessero l’intasamento di carrelli alla cassa 2, unica aperta su un totale di dieci, e l’inspiegabile inclinazione della clientela che non sa utilizzare le casse automatiche a scegliere proprio quelle, fare la spesa potrebbe pure essere un’esperienza piacevole.  

Le gite al supermarket sono ormai uno dei riti più scontati del quotidiano. Basti pensare che i piccoli credono che le cibarie siano creazioni di qualche laboratorio sotterraneo del Carrefour, e non frutto di secoli di storia globale e supply chains. Chiedere a un bambino come ci finisca secondo lui tutto quel ben di Dio sugli scaffali e stare a sentire le teorie a riguardo è un cambio di focalizzazione che può rivelarsi molto divertente. Al contrario, i nostri bisnonni erano a conoscenza dei sistemi di rifornimento, di container e trasporti, della refrigerazione e di ogni svolta economica, industriale e commerciale che spiegasse i nuovi modi di riempire la credenza. 

Eppure, il supermercato restava un incanto: vuoi per la novità, vuoi perché la spettacolarizzazione, artificio che innerva la storia sociale dei consumi, è un campo magnetico molto forte. 

Facciamo un po’ di storia tradizionale. Dopo i primi esperimenti su modello americano, a Milano nel 1957 aprì la Supermarkets Italiani Spa, con la sua prima sede in viale Regina Giovanna – non senza insidie burocratiche, insicurezze imprenditoriali, proteste dei piccoli commercianti. Il suo nome di oggi deriva da una campagna pubblicitaria di qualche tempo dopo: “Vieni a spendere 1000 lire lunghe al supermarket con la esse lunga!”. Nel 1957 le vecchie cooperative dei consumatori si evolvevano in Coop Italia, mentre cinque anni dopo nacque a Bologna la Conad. 

Ambienti ben progettati offrivano alla clientela lo show della razionalità: spesso si entrava solo per ammirare la parata delle costine di maiale disposte su vassoi con pellicola trasparente, le meraviglie sottovuoto dell’inscatolamento. Un giro di ricognizione della presunta consumer revolution che spesso, nei primi tempi, finì all’uscita senza acquisti. Del resto non mancava una certa diffidenza verso i prodotti più nuovi, in primis i surgelati: difficile competere con l’aspetto genuino degli ortaggi freschi, e le sciure che misero piede nella prima Esselunga meneghina storsero tutte il naso. 

Signore sì, ma non solo. Il supermercato, fin dagli anni cinquanta, era molto frequentato anche dagli uomini: il processo di scelta del cibo, in prevalenza un compito femminile da svolgere giorno per giorno, diventava una pratica collettiva a cadenza settimanale. La cura del dettaglio e l’intreccio di divertimento e consumo, che ancora oggi ritroviamo nei concorsi a punti o nei calendari con Bufala Bill, erano finalizzati a coinvolgere tutta la famiglia, che a poco a poco cambiava tavola e abitudini. E ancora: serialità, economicità, reperibilità facevano dei prodotti alimentari i protagonisti di una democratizzazione dei consumi di cui gli stessi imprenditori erano consapevoli. L’Esselunga, rilevata da Caprotti e dal 1961 a capitale solo italiano, nei manifesti pubblicitari raffigurava clienti di ogni genere e impiego, accompagnati dalla scritta “La spesa è uguale per tutti”. 

Ma ogni rivoluzione, si sa, ha il suo termidoro e i reazionari che l’aspettano al varco. Quando si tratta di consumi, trovarsi nel ventesimo o ventunesimo secolo non fa molta differenza, perché l’identikit del refrattario è pressappoco quello: filantropo ma in fuga dai luoghi affollati, nemico dell’American way of life più per disprezzo congenito che per ansia circa il futuro dell’umanità, irrimediabilmente (e forse a buon diritto) snob.

Nel 1962 Luciano Bianciardi, fine intellettuale e di conseguenza ostile a quelle rappresentazioni del becero consumismo tamarro che oggi potremmo individuare nelle domeniche al centro commerciale o nella calca fuori da Primark, scriveva senza pietà: «Vendono e comprano ogni cosa; i frequentatori hanno la pupilla dilatata, per via dei colori, della luce, della musica calcolata, non battono più le palpebre, non ti vedono, a tratti ti sbattono il carrettino sui lombi, e con gesti da macumbati raccattano scatole dalle cataste e le lasciano cadere nell’apposito scomparto […]. Io lo dico sempre, metteteci una catasta di libri e compreranno anche quelli». 


BIBLIOGRAFIA
L. Bianciardi, La vita agra, Milano 1962
E. Scarpellini, L’Italia dei consumi, Bari 2008

Alessandra Pogliani
Ostile al disordine e col cruccio di venire a capo dell’anarchia del mondo, per contrappasso nella vita studio storia.

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