
Jonah Hill ci ha fatto piangere dalle risate per tutta la sua carriera. È uno dei comici più rilevanti dell’ultimo secolo. È il protagonista di una ascesa spettacolare: veloce ed abile a raggiungere i vertici del cinema americano, dal 2004 a oggi ha prodotto, sceneggiato, recitato 47 film.
Jonah Hill, però, ha anche dichiarato di soffrire di una grave forma d’ansia e di continui attacchi di panico, esasperati dalle apparizioni in pubblico e dall’esposizione mediatica a cui è sottoposto. Per queste ragioni, nell’agosto del 2022 ha dichiarato di voler diminuire il carico di lavoro per poter dedicare più tempo e impegno alla terapia.
Stutz nasce da un percorso psicoterapeutico durato cinque anni con il professor Phil Stutz, appunto. Più che un resoconto finale, è un briefing su quanto appreso, reciprocamente, fino ad ora.
La pellicola è strutturata attorno ad una conversazione tra Jonah e il suo terapista. I due ci guidano attraverso lo studio e l’utilizzo dei tools ideati da Stutz per combattere ansia, tristezza, depressione, perdite, per entrare in contatto con la propria intimità e per migliorare le proprie condizioni di vita.
Le soluzioni utilizzate sono interessanti: utilissimo, ad esempio, è il metodo di Morris dell’Interrotron che permette allo spettatore di entrare direttamente in contatto con il soggetto che risponde alle domande e, specialmente in questo ambito, di impersonarsi nell’intervistatore, di far sue le risposte, di essere parte attiva del dialogo, applicandosi nell’utilizzo degli strumenti forniti da Stutz.

Questo, come dichiara l’autore inizialmente, sarebbe persino lo scopo ultimo del film: curare, fornire strumenti. Jonah tenta di invertire i ruoli: si trasforma da paziente a dottore, pone domande, si estranea. Tuttavia, non è la sua posizione naturale, e per quanto respinga la sua presenza dietro i punti interrogativi, trapela già molto del suo ruolo di paziente e amico.
Nella prima parte del documentario gli interrogativi posti da J. sono tecnici: quale sia la prima domanda rivolta a un paziente, cosa siano i tools e quale ruolo abbiano le cards nel processo di terapia. Vengono presentati i primi strumenti ideati da Stutz, rappresentati con mano tremante – lo psichiatra è affetto dal morbo di Parkinson da molti anni – su cartoncini, figure stilizzate che parlano di life force, la piramide delle relazioni che deve guidare la nostra esistenza.
Prosegue, Jonah, con una calma e una precisione giornalistiche, senza farsi emozionare, senza farsi coinvolgere:
si discute della famigerata part X, la parte antisociale e autobloccante di noi stessi, quella che impedisce la nostra evoluzione e che al contempo, tramite la necessità di superarla, costituisce il nostro motore di sviluppo. Ad ostacolare questo processo di overcoming esistono tre aspetti della realtà imprescindibili e sempre viventi: dolore, incertezza e costante lavoro.
Il minuto 26, però, rompe questa scenografia equilibrata – che, a dir la verità, risulta un po’ impacciata, una farsa insomma. Questo momento è il crack in ogni percorso terapeutico. Arriva lento, da ore e ore di conversazioni sempre più in profondità, a caccia del luogo dove risiede l’innesto del nostro male. È l’implosione di ogni paziente. È la forza della verità e della sua consapevolezza.

Ecco, al minuto 26, il bianco e nero esplode in colori. Jonah e Phil seduti affiancati. L’autore ha deciso di non mentire agli spettatori: questo documentario non è il resoconto di una sola seduta, di un’intervista singola, non è girato nell’ufficio di Stutz. Questo documentario è il risultato di mesi di riprese, si svolge su un set cinematografico e dietro ai protagonisti c’è solo uno schermo verde. Jonah indossa una parrucca, i capelli ora sono molto più corti rispetto alla prima seduta. La rivelazione.
Da questo momento il docu-film diventa un prodotto cinematografico straordinariamente interessante: i corpi, i toni, le espressioni si modificano radicalmente.
La tensione scompare; entrambi i soggetti si mostrano vulnerabili, dimostrano affetto sincero l’uno per l’altro. Le domande si arricchiscono di dettagli personali, di situazioni ed esperienze, di ricordi anche molto dolorosi. Si intrecciano le loro storie e si scoprono le somiglianze (emozionante il parallelismo nella morte dei fratelli dei protagonisti che fa emergere un ulteriore punto di raccordo nelle strategie adottate per affrontare tale perdita).
Si scava a fondo. Si parla anche di Jonah, della sua travagliata relazione con la propria immagine, della difficoltà di arginare la rabbia e la tristezza di non essere accettato nel proprio corpo. Un cartonato gigante appare, è l’immagine, a dimensione naturale, di un Jonah quattordicenne. Attraverso l’utilizzo dello strumento chiamato shadow il terapista guida il paziente in un esercizio di ascolto e accettazione delle sue parti oscure, rigettate dal mondo esterno e da sé stesso. E lo spettatore può decidere di essere parte di questa seduta, può decidere di osservare le reazioni di Jonah, può decidere di lasciarsi guidare dalla voce di Stutz e chiudere gli occhi. Lo spettatore può decidere, in questa parte del documentario, di essere quello che vuole: critico o sperimentatore. Può prendere appunti e approfondire. Lo spettatore può davvero.

Più le riprese proseguono, più Jonah scardina la sua maschera da star e sempre più Stutz scopre la sua intimità. Si parla di madri e dell’effetto delle loro convinzioni sulla psiche dei figli: la madre di Jonah interviene direttamente, in una conversazione a tre che è un po’ amara, un po’ di redenzione ma è certamente brutalmente onesta. Jonah non trattiene domande scomode per Phil: “How did it affect you having your mum hate men and being a man?”, chiede. E ridacchiano, I due protagonisti, mentre l’uno, il terapeuta, cerca di evitare risposte scomode con battute e ironia, e l’altro lo riporta ad affrontare la realtà.
I silenzi. Gli sguardi. Le dichiarazioni. Le risate prima di ogni assurdità. Le prese in giro e gli occhi lucidi.
Tutti elementi che rendono questo documentario un diario commovente, la narrazione della profondità del rapporto tra medico e paziente e della grande amicizia creatasi tra i due. Memorabile il viaggio finale tra i pensieri di Stutz e il cambio di prospettive di Jonah rispetto alla ratio del suo film che diventa una dichiarazione d’affetto e di rispetto verso Stutz, con l’obiettivo di celebrare quei tools che gli hanno permesso di vivere in modo più consapevole e, pare, più felice.
È bello e prezioso vedere tanta umanità e così poca finzione. È bello poter credere davvero alle emozioni sullo schermo. È bello guardare in faccia la vulnerabilità, rivelarla e parlarne. Stutz è un connubio ben riuscito di “bello e utile”. Si impara, si cresce e si estrae. E si gode di una tecnica scorrevole e spontanea. “Doesn’t matter what the people think”, come direbbe Jonah Hill.