Del: 25 Gennaio 2023 Di: Clara Molinari Commenti: 0
Verso il 2050, tra denatalità, lavoro e immigrazione

54,2 milioni: un numero apparentemente vuoto e privo di significato, un numero qualunque, eppure tanto drammatico quanto sconcertante se si considera che questo sarà il numero di residenti italiani il 1° gennaio del 2050. Ad essere residenti in Italia il 1° gennaio del 2021 erano invece 59,2 milioni di persone: risulta dunque evidente che stiamo andando incontro a una perdita di 5 milioni di cittadini.

Sono queste le previsioni sul futuro demografico dell’Italia, rese pubbliche da un report Istat di settembre 2022, previsioni che vanno a confermare quella che è ormai un’incontrovertibile decrescita della popolazione residente, dovuta tanto all’aumento della denatalità quanto al costante invecchiamento dei cittadini italiani. Ed ecco che, di fronte a questo preoccupante scenario che si prospetta ineluttabile, è bene interrogarsi sulle cause che ne sono il fondamento e sulle conseguenze che esso avrà sulle nostre vite.

Senza ombra di dubbio, causa principale del calo demografico è il fenomeno della denatalità,

che del resto mostra il suo volto già da parecchi decenni: dal 1993 infatti in Italia ci sono stati più morti che nuovi nati (tranne nel 2004 e nel 2006). Inoltre, dal 2008 le nascite sono diminuite di 176.410 unità (-30,6%) e il 2022 non ha certo cambiato rotta, tanto che, secondo i dati provvisori riferiti al periodo gennaio-settembre, le nascite sono diminuite di 6 mila unità rispetto allo stesso periodo del 2021.

Insomma, siamo nel pieno (o forse solo all’inizio?) di quello che viene chiamato “inverno demografico”, un inverno che ha trovato terreno fertile nel senso di precarietà e incertezza, senza dubbio acuito dalla pandemia, che incombe su di noi silenzioso, ma in modo tanto stringente e assillante da influenzare i nostri comportamenti, le nostre scelte e perfino il grado di responsabilità che siamo disposti ad assumerci, come, tra gli altri, quello determinato dalla nascita di un figlio.

Ora, lungi dal voler indagare le motivazioni personali e certamente legittime di chi non voglia avere figli, è invece doveroso quanto necessario far luce su quelle che sono le motivazioni di più ampio e generale respiro che hanno contribuito ad accentuare questo senso di comune incertezza.

Innanzitutto oggi i giovani incontrano sempre più difficoltà a entrare nel mercato del lavoro e ad assicurarsi dei redditi accettabili o quantomeno sicuri; per le donne poi si aggiunge il rischio degli effetti di una possibile maternità.

Le lavoratrici autonome infatti rischiano di perdere clienti, mentre quelle dipendenti hanno da temere di non vedersi rinnovati i contratti di lavoro a termine. E in tutto questo, ad aiutare non è certo il mercato delle abitazioni, divenuto sempre di più difficile accesso, tanto che la fascia d’età tra i 18 e i 35 anni ha una netta propensione all’affitto, che di certo non offre quella stabilità che è data dall’acquisto di una propria abitazione.

Pertanto, di fronte all’inaffidabile volto dell’incerto, e tenendo anche ben presente che oggi, più che nel passato, fare un figlio costa, e non poco, viene quasi da chiedersi se la genitorialità non stia assumendo sempre più le sembianze di una scommessa, di un tuffo nei meandri dell’ignoto, mentre per i più benestanti – in controtendenza e ad equo bilanciamento – le sembianze di un sublime privilegio.

Forse il governo, oltre che erogare assegni e bonus a sostegno delle famiglie, dovrebbe intervenire e porre mano, con riforme strutturali, su quella che è la causa non solo della denatalità ma anche della generalizzata insoddisfazione nei confronti del presente e della crescente sfiducia nel futuro: dovrebbe intervenire sul lavoro, sopprimerne la precarietà e soprattutto ridisegnarne le politiche in funzione del supporto alla genitorialità.

Questo è il punto essenziale: non solo agevolare le nascite, ma anche, e soprattutto, supportare efficacemente la scelta di fare figli nel lungo periodo.

A questo punto, esaminato il fenomeno della denatalità e ciò che lo alimenta, è possibile provare a spingere lo sguardo altrove, per cercare di individuare quali saranno gli sviluppi e le conseguenze del calo demografico già in atto. Lasciando da parte le posizioni di natura ideologica o personale sul fatto delle nascite in sé e per sé considerate o sul concetto di famiglia e società, la prima domanda che è necessario porsi è la seguente: il crollo demografico a cui andiamo incontro è sostenibile per l’Italia?

A una prima analisi la risposta è no, non è sostenibile, considerando che, secondo i dati Istat, il rapporto tra individui in età lavorativa (15-64 anni) e non (0-14 e 65 anni e più) passerà da circa tre a due nel 2021 a circa uno a uno nel 2050. Inoltre, in Italia il sistema previdenziale si basa sul principio per cui la popolazione attiva mantiene quella inattiva. Quindi, date queste premesse, sarebbe irragionevole pensare che nei prossimi decenni la sostenibilità del sistema pensionistico riuscirebbe ad essere ancora garantita.

Eppure, anche se la denatalità non sembra ricevere altro che valutazioni negative, è possibile, e forse anche più ragionevole, spostare la riflessione su un altro piano. È possibile, rinunciando preliminarmente alla smania di valutare il grado di positività o negatività del calo demografico, osservare questo fenomeno da una più ampia prospettiva, andando ad abbracciare e includere nella nostra traiettoria visiva tutte quelle variabili che potrebbero avere un impatto decisivo sull’andamento demografico del nostro Paese. Prima fra tutte l’immigrazione.

È noto a tutti che i flussi migratori sono un tema sensibile, un tema per così dire “caldo” dal punto di vista politico, un tema troppo spesso abusato per dare credito e “struttura” a banali affermazioni della propria ideologia e bandiera politica. Nei meandri di queste instancabili diatribe però un dato certo c’è: visto il saldo negativo della popolazione attiva che si avrà nel 2050, sarebbe impensabile far funzionare alcuni settori dell’industria, della sanità e dei servizi sociali senza un considerevole flusso migratorio.

Già solo oggi dal punto di vista economico il lavoro dei cittadini stranieri in Italia vale 134 miliardi e incide per il 9 per cento sul prodotto interno lordo,

secondo il Rapporto annuale 2021 sull’economia dell’immigrazione della Fondazione Leone Moressa. L’immigrazione quindi, valutata in considerazione delle interconnessioni che crea tra i vari paesi, sarà uno degli elementi salvifici che ci proteggerà dal gelo di questo ormai avanzato inverno demografico. E lo farà da un lato facilitando la transizione demografica per i paesi più ricchi e dall’altro permettendo una ridistribuzione delle risorse verso quelli più poveri.

Ed ecco che, alla luce di tutti questi dati e di ciò che si prospetta all’orizzonte del fatidico anno 2050, si rende più che mai necessaria l’adozione di politiche che tengano conto di tutti quei fenomeni che, in un’inestricabile connessione, concorrono a influire sull’assetto demografico del nostro paese.

Sono necessarie politiche volte a favorire e rendere più sostenibile la genitoritalità, come per esempio, su insegnamento del modello francese, la possibilità per uno dei genitori di lavorare a tempo parziale nei primi anni di vita dei figli. Sono necessarie politiche volte a investire sulla formazione dei giovani e a rendere in qualche modo più allettanti le opportunità lavorative offerte dal nostro paese. Sono poi necessarie, a proposito di immigrazione, politiche volte a potenziare i meccanismi di matching tra domanda e offerta di lavoro per favorire l’inclusione socio-lavorativa dei migranti.

E tutto questo richiede, per la sua attuazione, un quantitativo di mezzi considerevoli e, soprattutto, un insieme di sforzi coadiuvati dallo sguardo lungimirante di chi sappia rilevare e soppesare i poliedrici aspetti dell’andamento demografico italiano.

Clara Molinari
Studentessa di giurisprudenza, scrivo per dare ascolto ai miei pensieri e farli dialogare con l’esterno. Cinema e lettura sono le mie fonti di emozioni e conoscenza; la curiosità è ciò che lega il tutto.

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