Del: 12 Febbraio 2023 Di: Giulia Scolari Commenti: 0
Da rileggere per la prima volta: Diario Rosso

Uno scrittore e un fotografo entrano in un bar: non è una barzelletta, ma l’alba della Guerra Fredda. I media americani sono un fronte compatto di propaganda antisovietica, le leggende sulla minaccia comunista sono sulla bocca di tutti e i due si ritrovano a chiedersi se qualcuno si sia mai preoccupato di fare quello che oggi chiameremmo fact-checking.

Bisogna premettere che i nostri protagonisti non sono uno scrittore e un fotografo qualunque, ma John Steinbeck e Robert Capa. Il primo era già un autore affermato e rispettato, conosciuto anche oltreoceano; il secondo è il reporter che ha potato al mondo le immagini della Guerra Civile spagnola.

Nessuno meglio di loro conosce gli ambienti culturali americani, e i due non possono fare a meno di notare i primi segnali di una crisi che ancora oggi non si è superata.

L’era dei servizi sta giungendo al suo termine, le notizie riportate con oggettività sono ormai surclassate da giudizi e sottotesti propagandistici, la polarizzazione è entrata nelle redazioni e non accenna ad uscire.

Le notizie non sono più notizie, almeno quella parte di esse che attira più l’attenzione. Le notizie sono diventate una specie di scienza per iniziati. Un uomo seduto a una scrivania a Washington o a New York legge i cablogrammi e li rielabora secondo la sua forma mentale e il titolo del suo articolo firmato. Quelle che spesso ormai leggiamo come notizie non lo sono assolutamente più. Si tratta al massimo dell’opinione di un sapientone tra una mezza dozzina da altri su ciò che quella notizia significa.

Le notizie venivano scritte da chi la Russia non la vedeva nemmeno per sbaglio – complici anche i blocchi e i controlli imposti dallo stato sovietico soprattutto in quei primi anni – di conseguenza non era possibile smentire e nemmeno però lasciarsi convincere. I due uomini, chiacchierando davanti ai loro drink preferiti nel bar di fiducia, si rendono conto di non essere affatto interessati alla Russia di cui leggono sui giornali. Non gli importa di sapere ogni dettaglio sui programmi di Stalin o quali tecnologie siano in preparazione per conquistare la Luna o rivoluzionare l’agricoltura, si chiedono soprattutto: «Che abiti indossa la gente da quelle parti? Che cosa mangia a pranzo? Si danno anche feste e ricevimenti? E che genere di cibi si mangia? E come si fa l’amore e in che modo la gente va all’altro mondo? Di che parlano di solito in Russia? Si balla, si canta, si gioca? E i ragazzi, vanno a scuola?».

La convinzione che dovesse esserci una vita privata dei russi di cui nessuno parlava mai e che probabilmente non era tanto diversa da quella degli americani li spinse ad organizzare un viaggio: avrebbero redatto un servizio di cronaca corredato di foto, evitando la politica e i piani militari.

Ottenere il visto fu semplice per Steinbeck, mentre per Capa si rivelò il primo scoglio: un fotografo americano in Unione Sovietica non era ben visto. Il popolo russo era reduce da una guerra che lo aveva lasciato completamente devastato: la paura dei politici era quella che la macchina fotografica servisse per mostrare solo le macerie, ma la paura dei cittadini era quella che la macchina fotografica fosse simbolo di conflitto imminente. La maggior parte dei civili aveva visto questi strumenti solo durante i giorni della guerra, per documentare i bombardamenti e le battaglie più sanguinose.

Fu difficile convincere il console e, nelle parole di Steinbeck, avvenne più o meno così: «Abbiamo anche noi un mucchio di fotografi in Unione Sovietica», «Ma voialtri non avete nessun Capa».

L’itinerario previsto era da Stoccolma a Helsinki, da Helsinki a Leningrado e da Leningrado a Mosca. A Mosca avrebbero dunque atteso i documenti necessari per muoversi attraverso al paese: durante il viaggio, saranno ospiti di fattorie sociali in paesini dell’odierna Ucraina, visiteranno le rovine di Kiev e arriveranno fino in Georgia.

Dai loro racconti, uniti ove possibile dalle fotografie che lasciano senza parole di Capa, emerge un’Unione Sovietica completamente diversa da quella che si studia sui libri di scuola ancora oggi.

Tra le rovine della città, i cittadini ricostruiscono attivamente il loro microcosmo partendo dai quartieri più popolari e corredando i centri di statue celebrative solo al termine. Le famiglie più povere vivono tra le macerie delle loro vecchie dimore perché non vogliono abbandonarle, gli sfollati vengono aiutati da chi se lo può permettere.

I più importanti luoghi di culto non sono le chiese, ma i musei: ogni città è piena di musei che ne celebrano la storia, a costo di essere ripetitivi i centri urbani trasformano in cultura tutto ciò che rappresenta la vita dei cittadini e soprattutto mostrano la città del futuro.

“Il popolo, attraverso le distruzioni, attraverso gli edifici crollati e rovinati, viene al museo – uomini, donne e anche bambini – per osservare i modelli in gesso delle città del futuro. In Russia si pensa sempre al futuro. È il raccolto del prossimo anno sono le comodità che verranno tra dieci anni. Sono i vestiti che si fabbricheranno quanto prima. Se mai un popolo ha tratto energia dalla speranza, questo è il popolo russo.”

Il più curioso che visiteranno sarà quello della casa del celebre Tchaikovsky, in cui persino la tazza di caffè è stata lasciata sul pianoforte. I curatori hanno detto di voler dare l’impressione che il musicista sia solo uscito per una commissione e sia presto di ritorno.

La cultura in generale gode di un alone di mistero e di privilegio: gli scrittori sono i più celebrati dal regime, i più rispettati dal popolo. Servono per celebrare il soviet e non per essere cani da guardia della società.

In Unione Sovietica gli scrittori sono persone importantissime. Stalin ha detto che gli scrittori sono gli ingegneri dell’animo umano. Gli spiegammo che gli scrittori in America occupano una posizione ben diversa, sono considerati un po’ meno degli acrobati e un po’ più delle foche. E secondo noi questa è una cosa eccellente.

Nelle campagne, Steinbeck e Capa sono ospiti di famiglie che passano la giornata intera nei campi ma dove non si sa come le donne di casa sono in grado di occuparsi di un numero impressionante di pasti al giorno. Come tutti gli altri popoli, anche quello russo ci tiene a far bella figura: le donne nei campi si sistemano il fazzoletto per apparire più in ordine nelle foto, si cucina per offrire tutto agli ospiti e si tirano fuori i migliori vini per apparire più benestanti.

L’arrivo di ospiti da lontano è una grande festa, ma soprattutto l’occasione di fare loro le stesse domande che si sentono fare.

Come si vive in America? L’interesse dei russi più umili verso lo stato della decadenza capitalistica.

Volevano sapere come fossero i salari, il tenore di vita, se un uomo di ceto medio potesse acquistare un’automobile e come vivesse un operaio. Volevano sapere come mai lo stato non controllasse i giornali e lasciasse che parlassero sempre di guerra, come mai ai cittadini non risultasse pesante la lentezza decisionale dovuta alla burocrazia.

Come tutti gli altri, davanti a chi viene da lontano, vantano i luoghi e i cibi migliori. Su una cosa sono tutti d’accordo: «Finché non avete visto la Georgia, non avete visto nulla». È lì infatti che i due compagni di viaggio terminano il loro soggiorno nel gigante sovietico.

Diario russo venne pubblicato per la prima volta in America nel 1948 (qui riedito da Bompiani nel 2018).

Un libro breve, scorrevole e anche divertente: un servizio un po’ improbabile che però offre una rappresentazione molto trasparente di una realtà che sa rimanere nel cuore.

«[Questa] è la cosa per cui abbiamo fatto questo viaggio. Per scoprire come sospettavamo, che i russi sono un popolo come gli altri e che sono molto simpatici. Quelli con cui abbiamo parlato odiavano la guerra e amavano le stesse cose che amano tutti i popoli. Vivere il meglio possibile con tutte le comodità in sicurezza e pace. […] Di certo c’è gente cattiva tra loro, ma i buoni sono la stragrande maggioranza.»

Giulia Scolari
Scienziata delle merendine, chi ha detto che la matematica non è un’opinione non mi ha mai conosciuta. Scrivo di quello che mi piace perché resti così e di quello che odio sperando che cambi.

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