Del: 7 Febbraio 2023 Di: Alessandra Pogliani Commenti: 0
La scuola di cui abbiamo bisogno

Della narrazione della scuola made in Italy ci si può lamentare parecchio, così come dell’informazione che vizia le reti dei social network. Ma senza dimenticarne le tautologie. I media non sono un puro strumento di manipolazione della folla. Tante volte ripetono ciò che origliano, un po’ come quei compagni di banco cattivelli che si mettono in bocca le parole sentite a tavola la sera prima. L’infosfera propaga input già ridondanti, e noi rispondiamo a tono. Siamo utenti, non alunni passivi. È una sottigliezza che andrebbe tenuta a mente, anche se i dispensatori di consigli non richiesti, al secolo influencer, ci fanno sempre venire il dubbio che siamo cretini e abbiamo bisogno di loro.

Se i giornali raccontano la scuola italiana con continue oscillazioni schizoidi, è perché la scuola italiana ha anche questa natura bifronte. È fatta di laureati in tempi record e gente che comprime il liceo in quattro anni, così come di ragazzi che si tolgono la vita per un salto della sessione invernale. Perché lo stallo nei crediti formativi li fa sentire immeritevoli del mondo.

La situazione impietosa, per sbrigatività di indagine, viene imputata nella maggior parte dei casi al rigido sistema scolastico e alle sue lacune.

Non che la scuola italiana sia un exemplum invidiabile, ma focalizzarsi su questo aspetto rischia di adombrare alcune problematiche ancora più gravi.

Primo, la genitorialità distorta. La tendenza del nuovo millennio è vivere sempre più i figli come propaggini dell’ego. Oggetti che siamo liberi o no di esporre ai social perché sono di nostra “proprietà”, appendici di ambizioni mai espresse. È la via migliore per generare frustrati oppure, se le cose vanno peggio, ragazzi che mentono sugli esami e poi sprofondano sotto al peso delle bugie. Non si accetta che un figlio è prima di tutto un’anima straniera, perché si pretende che somigli ai nostri desideri. Non si ammette il fallimento di un figlio quando invece è proprio la prima cosa che gli si dovrebbe insegnare.

Metabolizzare un insuccesso significa anche saper ridere di un’assurdità scritta in una versione di latino, analizzare una prestazione bassa senza farne un melodramma. Riflettere su un votaccio, su un cambio di facoltà, pure su una rinuncia agli studi perché la realizzazione di sé non conosce un solo passaggio obbligato.

Forse sarebbe giusto recuperare un po’ di buonsenso pragmatico.

I voti rappresentano indicatori più o meno obiettivi del nostro livello di conoscenza della materia. Obiettivi, è meglio ripeterlo: per quanto l’etnografia della bocciatura in Italia faccia emergere un nugolo di geni incompresi dall’ancipite sistema scolastico (o almeno a detta del parentame), di solito costoro prendono cinque perché non sanno la lezione, non perché il sanguinario corpo docenti li ha in antipatia.

Se si ottiene il massimo bene, altrimenti si dovrà rivedere il metodo di studio, impegnarsi di più, decidere in base a come ci si sente. Ripetere un anno non è un’onta, ma una seconda occasione. E soprattutto, non ci rende persone inferiori. L’invidia, quella sì. E anche la spocchiosità. Ma sono piaghe che non hanno nulla a che vedere con il rendimento scolastico in sé. Che razza di adulti pensiamo di forgiare, eliminando i quattro a scuola perché traumatizzano gli studenti? Anche perché la vita ha molta meno misericordia dei professori, e proteggere troppo apre il varco alla vulnerabilità.

Una seconda osservazione riguarda l’aria ammorbata che si respira nelle aule liceali così come in tanti altri ambienti.

Le persone maligne, vero cruccio della nostra disgraziata civiltà. I loro commenti velenosi non risparmiano nessuno, per quanto si creda che a finire nel mirino sia solo chi arranca lungo il sentiero didattico. Tanta celebrazione del diverso ma poi, se essere diversi significa essere più bravi, ecco che qualcosa si incrina. Nessuno nega che alcuni signorini, dall’alto dei loro successi, si sentano l’incarnazione del superuomo. Almeno finché la sorte non li fa inciampare. Ma non è sempre così. Esistono anche ragazzi con la testa china sui libri perché sono curiosi, portati per una materia, senza per questo sentirsi meglio di altri esseri umani. E se per casuale rarità qualcuno riconosce in pubblico i loro meriti, devono pure preoccuparsi di aver urtato i sentimenti di chi ha preso sette anziché dieci alla verifica. Il problema sono i loro dieci al compito di algebra, oppure i compagni invidiosi e i loro fardelli genitoriali?

A tal proposito c’è poi un buffo, per non dire odioso, fenomeno sociologico che vale la pena di ricordare. La maggioranza dei paladini dell’aurea mediocrità tende a disertare le battaglie per il sei politico non appena varca i confini dell’otto e mezzo. Per non parlare del proseguimento degli studi. Mostrano sui social network il loro percorso all’università con un campo metaforico degno di guerre e cataclismi: pianti isterici prima dell’esame con lode, ringraziamenti in calce a chi c’era nelle notti buie della sessione, tronfi haiku motivazionali sul panorama che si ammira dalla vetta della laurea. Sempre si ricordino com’è la vallata del mercato lavorativo. Orbene, i voti eccellenti sono stracci di numero solo quando li prendono gli altri?

Questi personaggi popolano i chiostri universitari perché manca alla base un approccio sincero allo studio, in cui la cultura è un bene da diffondere e non lo status symbol di una minoranza altezzosa.

Non riusciamo a rallegrarci di un’eccellenza senza polveroni, ad affrontare una difficoltà scolastica con disincanto, liberi dall’ansia perenne di giustificarsi coi giudici di turno. Abitiamo una società in cui la mania del confronto, malanno congenito al genere umano, viene esasperata dall’iperconsumismo che ci governa e dalle sue manifestazioni online. Secondo la logica che potremmo definire di consumo dell’istruzione, oggi un titolo aggiunto alla bacheca digitale è un distintivo sociale, alla pari delle storie in evidenza con vacanze al resort e pranzi nei ristoranti chic. Ha ancora senso voler cambiare un mondo del genere, o i sogni prima o poi sbiadiscono?

La vera sfida, per la gioventù che verrà, è sottrarsi alla silenziosa apocalissi valoriale in cui siamo immersi fino al collo.

È una via poco battuta, la salvezza, ma non impraticabile. Se si vuole aiutare i ragazzi, allora le famiglie e la scuola devono educare all’intelligenza emotiva, un valore umano che si misura nelle scelte che facciamo, nel modo in cui ci rapportiamo agli altri, nelle idee in cui crediamo. Insegnare a fare fatica, perché la scuola è anche disciplina e sacrificio, e a scoprirsi coi propri tempi, guardando avanti e non a lato per vedere a che punto sono gli altri. Proteggere dalla tentazione della vanità così come dall’invidia. Un percorso parecchio ambizioso, diventare persone eccellenti. Eppure, il piano di studi è il più democratico in cui possiamo sperare.  

Alessandra Pogliani
Ostile al disordine e col cruccio di venire a capo dell’anarchia del mondo, per contrappasso nella vita studio storia.

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