Radici racconta fatti, personaggi e umori della storia della Prima Repubblica italiana, dal 1946 al 1994. A questo link è possibile trovare gli articoli precedenti della rubrica.
Resistere alle lusinghe dell’ironia, quando si fa storia d’Italia, è già di per sé un’impresa. Se poi si fa storia della politica estera italiana, è guerra persa ancor prima di varcare le trincee. Lo stesso Pietro Quaroni, dopo anni di carriera diplomatica, scherzava sul fatto che alla domanda “Chi fa la politica estera italiana?” c’è una sola risposta: “Nessuno”.
Nell’impossibilità di pigiare la miscellanea di eventi in cinque minuti di lettura, si può fare una sintesi seguendo le orme di chi, in questo caso il professor Valter Coralluzzo, ne ha una dimestichezza tale da cavarne fuori un discorso esaustivo. A disposizione della platea, oltre alle sue pubblicazioni, ci sono un bel po’ di videolezioni anche su Youtube.
Anzitutto, qualche schematismo da bigino. Si può dire che la politica estera italiana si sia strutturata fin dall’inizio attorno a tre cerchi: atlantismo, europeismo e vocazione mediterranea. L’ordine è quello gerarchico.
La scelta di campo atlantica risale al 1949, con l’entrata nella NATO. Più che una decisione politica da ricondurre ai democristiani al governo, fu una mossa senza alternative: nello scacchiere bipolare si era un po’ tutti, e non solo le repubbliche socialiste, Paesi a sovranità limitata. L’atlantismo, che ha visto allargare il suo consenso sia nella classe politica che nell’opinione pubblica italiana, è diventato anche uno strumento di legittimazione interna: si pensi all’urgenza con cui il Presidente del Consiglio si fa subito ricevere a Washington oppure, nella sua declinazione più trash, all’americanismo del Cavaliere.
Il cerchio europeo nacque come subordinato a quello atlantico. Il nostro approccio alla politica europea è stato fin da subito istituzionalista, cosa che ha creato non pochi attriti con Germania e Paesi nordici. Le istituzioni europee sono state intese a mo’ di maestro bacchettone deputato a imporre dall’esterno comportamenti virtuosi che altrimenti non sarebbero mai adottati (gestione responsabile delle risorse, del debito pubblico, finanza un po’ meno allegra e così via). Una manovra furbesca che permette alla nostra esimia classe dirigente, ancora oggi, di scaricare la colpa di ogni sacrificio sulla crudele Europa di fronte alle lamentele del popolo italiano.
Quanto al cerchio mediterraneo, è la questione dell’Italia come media potenza di cui ha parlato Carlo Maria Santoro in un saggio di qualche anno fa. C’è un’ambivalenza geopolitica che ci portiamo appresso dalla nostra nascita come Stato. Da un lato una concezione marittima e navalista per cui, essendo una potenza media e non equiparabile ai nostri alleati maggiori, il Mediterraneo è l’unico ambito in cui sia possibile farsi valere. Dall’altra parte, una visione europea e terrestre in cui l’Italia è un’appendice meridionale del continente e in questo senso la carta mediterranea, nell’eterna partita a Risiko del mondo, può essere giocata per accrescere il valore posizionale italiano nei contesti atlantico e europeo. Quale opzione è prevalsa negli anni? Santoro parla di ambivalenza zoppa. A spuntarla è stata la seconda, ma il navalismo è sempre rimasto lì a confondere le priorità geopolitiche, compromettendo la capacità di individuarle con nettezza.
L’incertezza riporta al punto di partenza: per una storia onesta della politica estera italiana tocca fare anche l’elenco dei vizi che le sono appiccicati in modo irreversibile
Un po’ come quei demagoghi mummificati che, nonostante il susseguirsi di anni e tornate elettorali, sono ancora lì, con le terga incollate al sedile parlamentare, e più si cerca di sbarazzarsene più quelli tendono a ripresentarsi (magari con un nuovo partitino personale). Vediamo una breve ma intensa carrellata.
Primo, il fatto che l’Italia sia nata tardi e in modo ostico non ha certo aiutato a livello di identità nazionale: difficile costruire una politica estera solida quando una buona fetta della popolazione e dei suoi rappresentanti vuole la secessione della Padania. Senza contare la collocazione in un’area poco tranquilla, e i nostri problemi di dipendenza energetica.
Alle vulnerabilità di partenza si aggiunge poi un difetto: subordinare la politica estera a quella interna, atteggiamento che è spia di un diffuso disinteresse per la politica estera da cui neppure la Prima Repubblica si è salvata. A titolo esemplificativo, si può citare un fatto poco noto che però non passò inosservato agli occhi della comunità internazionale. A inizio anni settanta tale Franco Maria Malfatti, politico di origini dossettiane, divenne niente di meno che presidente della Commissione Europea. Un ruolo di gran caratura, che sarebbe stato in seguito ricoperto da Romano Prodi. Ebbene, costui nel 1972 diede le dimissioni: in Italia si tenevano le elezioni anticipate, e aveva pensato bene di presentarsi come candidato mandando in malora gli affari europei.
Un terzo vizio che vale la pena di citare è quello che Altiero Spinelli ha definito “mania della presenza”. Un desiderio quasi ossessivo di partecipare ai consessi internazionali, salvo poi assistervi in una condizione di mutismo assoluto. Sotto i governi Berlusconi, questa discutibile idea di prestigio mondiale si è manifestata nella cosiddetta politica della sede, oltre che della sedia. Ospitare le riunioni sul proprio territorio non era un’occasione per dire qualcosa dal pulpito italiano, però faceva charme.
Da ultimo, un carattere reattivo nella nostra attitudine geopolitica. Nella tribuna popolare dei social network diventiamo tutti esperti del settore solo quando succede qualcosa che ci chiama in causa direttamente – va da sé il riferimento all’Ucraina, il problema della dipendenza energetica e altri fatti che i media presentano come più eclatanti di altri e quindi si suppone lo siano. Ci si sveglia dal coma geopolitico ogni tanto, informandosi velocemente e male. Solo se accade qualcosa di grave, altrimenti addio. Il Corriere deve vendere copie e quindi dedica articoli ai gossip di Sanremo, perché gli Esteri non fanno share, o almeno lo fanno in modo incostante. Nel complesso è un quadro che deprime, eppure si può ancora cambiare (o almeno, ci si prova).
In questo senso vale davvero la pena di citare qualche eccellenza controcorrente.
La prima è Limes, la rivista italiana di geopolitica nata a inizio anni novanta. Se tutti leggessimo ogni tanto anche uno solo dei suoi paragrafi, passerebbe la voglia di dire facilonerie. Gli editoriali di Caracciolo, oltre che essere stilisticamente ammirevoli, sono una lettura che non garantisce di essere compresa appieno, anzi. Tuttavia, nei loro cenni che spaziano in modo impressionante tra le coordinate spazio-temporali. Lasciano una traccia per chi vuole saperne di più, orientarsi un minimo nella cartina in mutamento continuo che abitiamo. Anche sui social ci sono tantissime pagine accurate e dedicate agli approfondimenti esteri. Dall’account dell’Ispi e dell’Onu a Factanza, da Crisis Watch ai profili che si focalizzano su un’area in particolare. Lasciarsi bombardare il feed, anche leggiucchiando qua e là in modo distratto e sentendo cos’ha da dire nel reel di stamattina il signor Guterres, è un ottimo modo per assorbire nozioni.
Insomma, delle nostre mancanze si può discutere in eterno, ed è anche necessario farlo, perché bisognerà pure studiarle per porvi rimedio. Ma poi si deve andare oltre, e lasciare in un cantone quell’accanimento sulla pars destruens che è tipico della retorica dei fori italiani. Un discorso costruttivo che riguardi la politica estera nostrana si può sempre fare, e non solo dando importanza alle competenze che i ministri devono avere. Visto che per fortuna non siamo (ancora) un’oligarchia ma una democrazia, non c’è progetto che non debba passare dalla consapevolezza del paese reale.