
«Caro Presidente, l’altra settimana ne ho combinata una delle mie: mi sono impiccato. Mi scusi.»
Rammarico e dimissione, due sentimenti coagulati in poche e scarne parole che chiedono scusa per un tentato suicidio. Sono parole che costituiscono l’epilogo di una corrispondenza durata ventisei anni tra un ergastolano e il suo giudice, Elvio Fassone, chiamato a presiedere il maxi processo alla mafia catanese tenutosi a Torino nel 1985. E, ancora, sono parole che preannunciano il passaggio di un uomo attraverso il fatale varco della desolazione più totale, tanto che il suicidio si presenta come l’unico modo per dare fine al proprio essere senza che a farlo siano gli asettici ingranaggi del sistema carcerario.
Sono passati 37 anni da quando Elvio Fassone, scrivendo una lettera a un detenuto da lui condannato all’ergastolo, diede inizio a una storia di corrispondenza di cui poi ha reso testimonianza nel libro Fine pena: ora, pubblicato nel 2015, al fine di attestare e denunciare le noncuranti procedure con cui troppo spesso vengono trattati i detenuti, a spregio del principio di “rieducazione”, che, almeno in teoria, dovrebbe stare a fondamento del trattamento penitenziario. Sono passati 17 anni dalla testimonianza di Fassone, eppure miglioramenti consistenti ancora non si sono visti:
il 2022 è stato l’anno con il maggior tasso di suicidi nelle carceri italiane.
84 detenuti nel 2022 hanno “scelto” di togliersi la vita. Ed ecco che, oggi più che mai, occorre tornare indietro qualche anno per dare ascolto alle parole di Fassone, che permettono di passare attraverso le sbarre di una cella per conoscere, o quantomeno osservare, la vita di un uomo che si è spenta al suo interno: la vita di Salvatore. Cuore pulsante dell’intera vicenda è una considerazione che Salvatore rivolge a Fassone in uno dei loro primi dialoghi: «Se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia; e se io nascevo dove è nato suo figlio, magari ora facevo l’avvocato, ed ero pure bravo».
È una considerazione intrisa dell’amara consapevolezza che ognuno di noi è in gran parte figlio del plasma sociale in cui è cresciuto e che il luogo in cui nasciamo non è altro che il risultato di una lotteria a cui non abbiamo scelto di partecipare. Ed è proprio questo che spinge Fassone a inviare a Salvatore una lettera accompagnata da un libro: l’intimo bisogno di dare ascolto alla voce di un uomo nato in un mondo totalmente diverso dal suo e di invitarlo, tramite la delicata offerta di un libro, ad avvicinarsi al suo. Salvatore accoglie l’offerta, lui che di libri non ne aveva mai letti, ed ecco che la letteratura diventa subito emblema del valore della rieducazione insito nello scopo della pena.
Il punto, infatti, non è chiedersi se sia giusto punire, ma perché si punisce, cosa si vuole ottenere privando un uomo della sua libertà e del suo tempo: una sottrazione del tempo fine a stessa oppure una sottrazione che persegua finalità rieducative?
Fassone una risposta l’ha trovata. Il sistema penitenziario non ancora.
Salvatore viene sballottato da un carcere all’altro senza la minima considerazione del suo percorso di riabilitazione, del suo impegno nello studio e del suo costante rispetto nei confronti delle regole imposte dal carcere. Ottiene la licenza elementare, ma il suo sincero quanto vorace desiderio di arrivare alla terza media si scontra poi con l’insormontabile ostacolo di una meccanica e impassibile applicazione della legge: basta un episodio di violenza avvenuto nella propria cella per causare il trasferimento in massa di tutto il reparto, compreso chi non ne aveva nulla a che fare. Basta l’arrivo di un nuovo direttore per vedersi scivolare tra le mani anni di scrupolosa osservanza delle regole e di caparbia volontà di migliorarsi, vedendosi così precluso l’accesso alla semilibertà, pur essendone ormai alle soglie.
Salvatore incassa ogni colpo, si rialza e ricostruisce, tenta di risalire dal fondo della sua miseria per afferrare ogni spiraglio di luce che gli si presenta ma costantemente viene ributtato giù, e non per crudeltà, ma per semplice noncuranza e disattenzione nei confronti della vicenda del singolo detenuto. E così la storia di Salvatore si esaurisce in un’estenuante lotta tra gli sterili pantani della burocrazia.
Nel 2022 le carceri italiane hanno ospitato quasi 57mila detenuti e, di questi, 84 hanno deciso di togliersi la vita.
E lo hanno fatto non solo per le difficoltà materiali della detenzione, come la mancanza di uno spazio minimo di suolo calpestatile nella propria cella, o la mancanza di acqua calda e riscaldamento, ma anche, e forse soprattutto, per l’insopportabile consapevolezza che nella maggior parte dei casi la società non ha alcun interesse alla loro effettiva rieducazione e al loro reinserimento.
Come rilevato dall’Associazione Antigone le opportunità lavorative, di studio e di svolgimento di attività sono insufficienti nelle carceri italiane: secondo i dati rilevati nelle 99 carceri visitate, solo il 30% dei detenuti lavora e, di questi, solo il 4,4% per datori di lavoro esterni. Inoltre, solamente 7 detenuti su 100 partecipano a corsi di formazione professionale e 3 su 10 a corsi scolastici. Nemmeno il problema della salute mentale dei detenuti è stato affrontato con la dovuta premura: all’8,7% dei detenuti era stata diagnosticata una patologia psichiatrica grave, il 18,6% assumeva regolarmente stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi e ben il 42,4% sedativi o ipnotici ed il 18,9% erano tossicodipendenti in trattamento. A fronte di questo c’erano soltanto 8,3 ore la settimana di copertura psichiatrica ogni 100 detenuti e 17,2 ore la settimana di servizio psicologico.
Quanto ai funzionari giuridico-pedagogici (educatori), vi era un solo operatore ogni 93 detenuti. Come chiamare tutto questo se non trascuratezza e sciatteria? Non dovrebbe forse anche la collettività esterna aprirsi al dialogo con il mondo delle carceri, piuttosto che stigmatizzarlo con durezza o guardarlo con indifferenza fino a renderlo il non-luogo della bruttezza umana? Tra gli 84 detenuti che si sono tolti la vita, almeno 12 lo hanno fatto dopo brevi se non brevissime permanenze in carcere, mentre almeno 10 avevano una pena residua inferiore ai due anni.
Non si può negare allora quanto sostenuto da Mauro Palma, presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale: spesso è l’esterno a far paura quasi più dell’interno. Che si venga condannati a uno, cinque, dieci anni di reclusione, o addirittura all’ergastolo, la separazione tra interno ed esterno è in alcuni casi troppo ampia e l’impatto con la realtà “altra” delle carceri troppo forte, per molti insostenibile.
Ed è qui che la storia di Salvatore si intreccia con quella degli 84 detenuti che nel 2022 hanno “scelto” di togliersi la vita nella propria cella.
Sono stati tutti vittima di un sistema distratto, che troppo spesso si dimentica di accompagnare il detenuto in molte fasi della sua reclusione, abbandonandolo a sé stesso e al logorante scorrere di un tempo privato del suo senso. Eppure, può il concetto di rieducazione conciliarsi con quello di un’espropriazione del tempo fine e sé stessa? Salvatore ha cercato di sottrarsi a questa logica e di dare un senso al proprio tempo; ha cercato di risalire dal dirupo in cui era stato gettato e di opporsi all’annichilimento del suo io con la sola arma di un libro. Nessuno però ha sentito la sua voce, la sua umile richiesta di vedersi riconosciuto quel minimo di dignità che separa l’uomo dalla bestia.
La necessità di procedere per generalia è più forte, sorda di fronte alle preghiere dei singoli, e di certo un’asettica applicazione di regole non trova spazio al suo interno per ciascuna variabile, per la voce di ogni singolo Salvatore del caso. E allora a Salvatore non resta che mettere un punto, uscire con dignità dalle sbarre della sua cella per riconciliarsi con l’esterno. Tenta il suicidio, ma lo salvano in tempo. Ed ecco che subito offre al suo giudice scuse che trasudano di puerile pudore, per aver infranto quella tacita promessa di redenzione che per ventisei anni ha rappresentato l’essenza della loro corrispondenza.
Ma forse siamo noi a dover chiedere scusa a Salvatore, scusa per gli 84 detenuti le cui voci sono rimaste ancora una volta inascoltate. E proprio per questo è necessario intervenire per conferire rispettabilità e decoro al tempo e al luogo delle carceri: servono provvedimenti volti a ridurre la distanza che separa l’interno dall’esterno tramite l’immissione nelle carceri di mediatori sociali e l’investimento sulle professionalità già esistenti. Servono una riqualificazione materiale delle strutture che possa renderle quantomeno vivibili e una maggiore presa in carico dei detenuti, soprattutto al loro ingresso.
Sono necessarie pene alternative alla reclusione per i reati di minore allarme sociale, così da combattere il sovraffollamento che colpisce le carceri ormai da decenni. Servono attenzione, riguardo ed empatia rispetto alla storia di ogni singolo detenuto, rispetto alla vicenda di ogni singolo Salvatore. Nessuno mette in dubbio il fatto che punire sia giusto: il punto è chiedersi perché farlo, e, di conseguenza, in che modo farlo.